domenica 22 gennaio 2012

Don Giulio, domenica 22 gennaio 2012




Buona domenica

don Giulio



______________________



VANGELO DI RIFERIMENTO



Dal Vangelo secondo Marco

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.

Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.





RIFLESSIONE





22 gennaio 2012



MOLLATE GLI ORMEGGI

3a domenica del Tempo Ordinario B





Gesù ci dice che per seguirlo bisogna imparare a pescare:

“Seguitemi, vi farò pescatori”.

E pescatori da mare, al largo. Non da canna da pesca.

Mi sono chiesto cosa avesse di particolare questo mestiere.

Pescatori, ha detto Gesù. Non cacciatori. Non ammaliatori.



“I pescatori sanno che il mare è pericoloso

e le tempeste sono terribili,

ma non hanno mai considerato quei pericoli

ragioni sufficienti per rimanere a terra” (Vincent Van Gogh).

Noi, uomini di terra, preferiamo tenere i piedi ben piantati,

preferiamo avere un orizzonte corto ma controllato.



Il pescatore, invece, uomo di acqua, con la sua barca

galleggia tra due immensità infinite: il cielo e il mare.

Due infinità non sempre tranquille e favorevoli.

Più lontano si spinge dalla sponda più cresce l’insicurezza.

Ogni partenza è un rischio e ogni ritorno una grazia.

Anche noi siamo ogni giorno sulla barca della vita

tra questi due abissi, non sempre tranquilli:

il mare della nostra storia, profondo per scelte e sentimenti,

vivo e insieme inquinato per ciò che dentro ci sguazza,

e il cielo ignoto, dove segni stradali sono solo stelle lontane

difficili da decifrare e che nuvole cupe a volte nascondono.



Essere “pescatori” è avere il coraggio di lasciare alle spalle

la riva sicura per lanciarsi verso un orizzonte infinito, galleggiando su un mare profondo incerto ma pieno di vita.

Non è essere incoscienti: ci vuole più determinazione e forza

a stare sul mare che a stare sulla terra!



Chi dorme sogna… ma non piglia pesci!

Il pescatore è un uomo aperto alle sorprese,

disposto al rischio e ad investire in tanta pazienza.

Non si tratta però di un’attesa inerte, vuota, noiosa,

Quando il risultato non corrisponde alla fatica

non si sgomenta. L’insuccesso provoca rinnovata speranza,

sfida per un aumento di coraggio e di determinazione.

Il pescatore non si scoraggia e non si arrende facilmente.

Riempie il vuoto delle reti con supplementi di speranza.

Domani la getterà di nuovo, più lontano, più in profondità.

Domani si alzerà più presto, attenderà più a lungo,

studierà meglio la situazione.

Domani sarà un nuovo giorno e ci sarà un nuovo stupore.

Quanto dobbiamo imparare da questo!



C’è poi un altro dettaglio molto interessante.

Il pescatore non vede come i pesci entrano nella rete,

non li prende di mira, non corre loro dietro,

non li costringe ad entrare, non crea trappole,

non prepara tranelli, non tende lacci di insidia,

soltanto getta la rete, la tiene aperta e attende.

È carico di dinamismo emotivo e di mille piccole attenzioni:

egli bada all’andamento giusto della barca,

percepisce il giro della corrente, studia la forza del vento,

esamina il colore delle nuvole, legge le mutazioni del tempo,

scruta una quantità di segni che ai più non dicono niente.

Quanto dobbiamo imparare anche da questo.



C’è però una situazione in cui dobbiamo stare molto attenti:

per bloccare nel porto una barca e impedirle di salpare

non serve una grossa catena o una pesante ancora,

basta anche solo una corda.

Per salpare bisogna avere il coraggio di slegare tutto.

È questo l’aspetto che più ci tocca sul vivo.

Ho la salute? Ho una bella famiglia? Ho una casa?

Ho un lavoro? Ho degli amici? Sto tutto sommato bene?

Tutto è bene se, e soltanto se, serve a darmi un orizzonte,

se mi rende capace di cercare vita e futuro in un oltre

anche se non ne vedo il fondo e se a volte è tempestoso.

Altrimenti tutto questo “ben di Dio” diventa una corda

che mi blocca, mi fossilizza, mi inaridisce, mi lega.

E se la serenità cominciasse col mollare gli ormeggi?

Essere “pescatore” è avere il coraggio di fare nella vita

una scelta assolutamente scomoda e impopolare,

apparentemente priva di qualsiasi convenienza e ragione.

La ragione la senti solo tu dentro, è quella del cuore,

forse la stessa che ha mosso quei pescatori a seguire Gesù.



È come la pazzia dell’amore che offusca a volte la ragione

altre volte ti ridà, oltre le nuvole e tempeste, un orizzonte,

striscia di luce che imperterrita ti accompagna discreta,

e ti fa capire che quello è il tuo traguardo.



Ci può accompagnare il testo di una canzone della Mannoia

(cantata con Bertoli). Ne estrapolo un pezzo:



“Getta le tue reti, buona festa ci sarà.

Canta le tue canzoni che burrasca calmerà,

pensa pensa al tuo bambino, al saluto che ti mandò

e tua moglie sveglia di buon mattino con Dio ti te parlò:



Dimmi, dimmi, mio Signore, dimmi che tornerà

l’uomo mio difendi dal mare, dai pericoli che troverà.

Troppo giovane son io ed il nero è un triste colore

la mia pelle bianca e profumata

ha bisogno di carezze ancora

ha bisogno di carezze ora.



Pesca, forza, tira pescatore,

pesca, non ti fermare,

poco pesce nella rete, lunghi giorni in mezzo al mare:

mare che non ti ha mai dato tanto

mare che fa bestemmiare

e si placa e tace senza resa

e ti aspetta per ricominciare,

e ti aspetta per ricominciare”.



Molliamo gli ormeggi, il mare della vita ci aspetta come pescatori al largo,

ci aspetta, pieno di vita, per ricominciare.

LA FAMIGLIA TRA LAVORO E FESTA, intervento di S.E. Monsignor Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara

LA FAMIGLIA TRA LAVORO E FESTA


(presentazione del tema del congresso teologico pastorale)

La famiglia: il lavoro e la festa: queste sono le tre parole del tema del

VII° Incontro mondiale delle Famiglie che si terrà a Milano dal 28 maggio al 3

giugno 2012. Esse formano un trinomio che parte dalla famiglia per aprirla al

mondo: il lavoro e la festa sono modi con cui la famiglia abita lo “spazio” sociale

e vive il “tempo” umano. Lo svolgimento del tema deve mettere a fuoco tre

modi di rinnovare la vita quotidiana: vivere le relazioni (la famiglia), abitare il

mondo (il lavoro), umanizzare il tempo (la festa). Al tema sono dedicate anche le

Catechesi che il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha pubblicato in

collaborazione con l’Arcidiocesi di Milano1.

Le catechesi cercano di dipanare il filo rosso del tema nella tensione tra

famiglia e società. La famiglia tende a restringere il proprio mondo nella sfera

privata e la società si pensa e si progetta come un insieme di individui. La vita

civile fatica a tener conto dei legami sociali che la precedono e sospinge la

famiglia nel suo regime di “appartamento”, mentre l’esperienza familiare

sperimenta la sua fragilità ed è particolarmente vulnerabile di fronte ai processi

sociali, in particolare quelli che incidono sulla sua vita quotidiana, come il lavoro

e il tempo libero. Pertanto le catechesi partono dalla vita quotidiana per aprirla

al mondo, insistendo sulla famiglia come luogo di legami assunti liberamente.

Le relazioni familiari si devono, da un lato, collocare realisticamente

nelle forme attuali con cui lavoro e tempo libero influiscono sulla vita di coppia e

l’educazione dei figli; ma, dall’altro, potranno diventare occasione per

trasformare il mondo mediante il lavoro e per umanizzare il tempo mediante il

senso cristiano della festa, in particolare della Domenica. L’esperienza delle

diverse nazioni e continenti mostrerà un panorama assai diversificato con cui

famiglia, lavoro e festa s’intrecciano e questo rappresenta un patrimonio

prezioso per il momento di incontro, confronto e celebrazione che avverrà a

Milano.

Il tema proposto per il VII° Incontro Mondiale chiede di essere collocato in

una riflessione più ampia. È questo il senso del presente contributo, che si

propone a) di trattare la tematica dall’angolatura della famiglia; b) di mettere in

rapporto il vissuto della famiglia con la sua maniera tipica di vivere le relazioni

1 PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA – ARCIDIOCESI DI MILANO, La famiglia: il lavoro e la

festa. Catechesi preparatorie per il VII Incontro mondiale delle Famiglie, Libreria Editrice

Vaticana, Citta del Vaticano 2011, pp. 103.

2

(la famiglia), di abitare il mondo (lavoro) e di umanizzare il tempo (festa). Le

riflessioni che seguono vogliono fornire solo un canovaccio tematico, una specie

di schema utile per leggere poi il tema nelle singole culture e tradizioni.

Per questo l’Incontro mondiale è una grande opportunità, se si colloca

dentro un prima e un poi temporale, dandogli continuità nella vita quotidiana.

Un incontro con l’orizzonte della mondialità è una sfida a superare i

particolarismi e ad arricchirsi con il caleidoscopio delle diversità. Il convenire a

Milano dovrà favorire la circolazione tra gli stili della vita di famiglia, per

mettere in comunicazione e in comunione esperienze diverse tra mondo

occidentale e altri mondi dove gli stili di vita quotidiana possono avere tonalità

molto variegate. Il dono di un incontro di questa natura è capace di

rappresentare l’immagine della Chiesa cattolica, come comunione universale

delle identità singolari.

Il tema di questo VII appuntamento si presta in modo peculiare a favorire

l’osmosi delle esperienze, l’incontro tra le persone, il confronto tra le diverse

visioni e lo scambio di nuove prospettive. Si tratta di un tema di carattere

antropologico, nel quale è necessario mostrare la sua dimensione teologale

dall’interno della vita di famiglia. Possiamo parlarne, descrivendo il lavoro e la

festa come due momenti decisivi dell’esperienza familiare, sullo sfondo del

rapporto tra famiglia e società. Essi sono i luoghi con cui la famiglia si apre alla

società e la società s’innesta nella vita della famiglia. Lavoro e festa sono due

aspetti antropologici che qualificano la vita quotidiana, ne formano come la

trama su cui ogni famiglia deve imparare a tessere in modo nuovo l’esperienza

cristiana.

1. La famiglia: vivere le relazioni

Il primo modo per rinnovare la vita quotidiana è quello di vivere la

famiglia come uno spazio di relazioni: all’interno e all’esterno. Soprattutto la

famiglia occidentale, definita famiglia “nucleare”, corre il rischio di privatizzarsi,

e di percepire la società come altra, rispetto alle sue dinamiche interne.

È facile intuire che il lavoro e la festa sono due momenti per infrangere il muro

che separa la famiglia dalla società, ma soprattutto per superare l’idea del

vivere sociale come un insieme di individui. Una visione che fatica a percepire la

famiglia e le sue diverse forme come soggetto della vita civile. Potremmo

illustrare questo primo aspetto con un’immagine: per vivere la famiglia come

spazio di relazioni occorre “aprire la casa”.

La casa assume diverse sfaccettature nell’esperienza di ciascuno: è la

casa natale, nella quale siamo stati generati e continuiamo a venire alla vita; è

la casa paesaggio, spazio delle relazioni affettive e delle prime responsabilità; è

la casa finestra, che ci apre al mondo circostante e al rapporto sociale.

3

Soprattutto, oggi, nelle culture globalizzate, è la casa appartamento, nella quale

cioè si vive “appartati”, è lo spazio con cui la coppia veste a perfezione la forma

dell’amore romantico. Un amore che si esprime in un rapporto di coppia isolato,

privatistico, che sente tutte le altre relazioni ecclesiali, culturali, sociali, come

rapporti che vengono dopo e forse sempre troppo tardi. Aprire la casa

appartamento è l’urgenza del momento. Occorre mettere le case e le famiglie in

rete, sottrarle al loro regime di appartamento, farle diventare spazi di

accoglienza, luoghi dove si custodisce un’intimità profonda nella coppia e tra

genitori e figli, come la sorgente zampillante per irradiare intorno a sé calore e

vita.

Il tema del VII Incontro mondiale ci dice che l’apertura della casa trova

una sfida singolare nell’intreccio di lavoro e festa. Qui sorge la domanda: come si

fa ad aprire la casa? Troviamo una risposta persuasiva nel Vangelo di Giovanni:

Gesù, la parola eterna del Padre, ha messo la casa in mezzo alla sua gente.

«Venne nella sua casa ma i suoi non lo accolsero, però a quelli che lo hanno

accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12). La casa

dev’essere spazio accogliente, perché una casa che accoglie è capace di

generare i figli di Dio, di trasmettere non solo la vita fisica, ma anche la vita

come dono promettente. La casa diventa “accogliente” se sa preservare la

propria intimità, la storia di ciascuno, le tradizioni familiari quale spazio di una

vita che è grata del dono che ha ricevuto, è contenta dei beni che le sono stati

trasmessi. La casa diventa “generante”, cioè fonte di vita, quando i doni

trasmessi sono fatti circolare, quando i beni ricevuti sono scambiati, valorizzati,

donati. Casa “accogliente” e casa “generante”, queste sono le due qualità della

casa che abita lo spazio della vita quotidiana in modo creativo: luogo

dell’intimità e luogo della generazione. Custodire e trasmettere la vita, nella

coppia e attraverso i figli, questo è il dono della casa!

Bisogna tornare a rendere la casa vivibile, a trasformarla in habitat

umano, in uno “spazio di esistenza”, come ha felicemente detto Benedetto XVI a

proposito dell’esistenza cristiana. Il suo ritmo deve essere come il battito del

cuore, luogo di riposo e di slancio, luogo di arrivo e di partenza, luogo di pace e

di sogno, luogo di tenerezza e di responsabilità. Per creare una famiglia così, la

coppia deve cominciare a costruire la casa prima dell’arrivo dei figli. La festa è il

tempo della casa e non della città mercato; è l’atmosfera dell’incontro tra uomo

e donna e non della fuga verso l’altrove; è il clima della parola scambiata, del

pranzo preparato assieme, dello sguardo sulla settimana, del riposo che

comunica, del racconto che edifica. E anche la casa della settimana lavorativa

dovrà ricevere luci dalla festa, dovrà essere meno albergo è più incontro, meno

televisione e più parola, meno fretta e più pacificazione, meno cose e più

presenza. Abbiamo una casa piena di cose e povera di presenze, fitta di impegni

e debole di ascolto, travolta da telefonate e incapace di risposte.

4

Questa è la prima dimensione forte del tema del VII Incontro mondiale:

domanda di vedere come abitiamo la casa. Bisogna guardare come la

casa/famiglia è la nostra abitazione, che storia ci racconta (quando l’abbiamo

ricevuta e costruita), che memoria ci porta, quali momenti belli e tristi evoca,

che fallimenti ci ricorda, che riprese rende possibili. Occorre valutare lo stile del

nostro abitare la casa, le scelte che vi abbiamo fatto, i sogni che abbiamo

coltivato, le sofferenze che viviamo, le lotte che sosteniamo, le speranze che

viviamo. Solo così la casa dà il potere di diventare figli e figli di Dio: generare

figli è trasmettere e ricevere la vita, diventare figli di Dio comporta che la vita

ricevuta e trasmessa sia il luogo della vocazione e della scelta di vita. La vita di

Gesù a Nazareth può essere ripercorsa con questo sguardo: la tradizione

familiare e spirituale di Israele presente nella casa di Nazareth è lo “spazio di

esistenza”, dove la Parola fatta carne rende la storia di Gesù capace di dire, con

le immagini e i gesti ricevuti, la ricchezza inesauribile del tempo compiuto e del

Regno che viene.

2. Il lavoro: abitare il mondo

All’interno della famiglia come trama di relazioni che apre la casa

all’esterno, il lavoro rappresenta un modo essenziale per “abitare il mondo”. Il

lavoro segna profondamente oggi lo stile della vita di famiglia: anche il lavoro va

abitato, non può essere solo il mezzo del sostentamento economico, ma deve

diventare il luogo dell’identità personale/familiare e della relazione sociale. Il

modo con cui la coppia vive il lavoro è uno dei luoghi più forti con cui oggi si dà

volto allo stile di famiglia e con cui la società plasma (o deforma) lo stile di

famiglia. Dal punto di vista della famiglia, soprattutto nelle società globalizzate,

osserviamo oggi fenomeni diversi.

Il primo fenomeno: la famiglia moderna ha bisogno del lavoro di entrambi

i coniugi per poter vivere. Questo ha un’incidenza decisiva sul modo di vivere la

famiglia da parte di marito e moglie, perché soprattutto la donna deve fare la

spola affannosa tra casa e lavoro, tra lavoro produttivo e lavoro casalingo, spesso

con una settimana faticosa, che incide sulla figura stessa del suo essere donna,

prima che moglie e madre. Ciò comporta che il lavoro dell’uomo non sia più

inteso come l’unico sostentamento della famiglia, e questo dato sociale si

riflette pesantemente sulle relazioni familiari. Esso sottrae all’uomo la sua figura

tradizionale di essere il sostegno (economico) della casa e lo distribuisce in parti

(uguali) tra marito e moglie. Il marito fatica a riconoscere questo mutamento di

grammatica sociale, tende a sottovalutare il lavoro (non solo casalingo) della

moglie. Occorre rendersi conto che il lavoro influisce sullo stile di famiglia, ma

non bisogna importare in casa, sia nella stima di sé, sia nel rapporto uomo

5

donna, una visione economicistica del lavoro, per la quale una persona vale per

quanto guadagna.

Il secondo fenomeno: il lavoro con le sue possibilità, le scelte dei livelli

professionali per la donna e per l’uomo fanno fatica a entrare nel progetto e nel

vissuto di una famiglia. È difficile che il lavoro entri normalmente nel dialogo tra

i due, o anche nel racconto con i figli. Eppure esso incide in modo considerevole

sulla vita di casa. Soprattutto emerge nei periodi di crisi, sotto la forma di

risentimento che l’uno avanza nei confronti dell’altro, quando uno dei due,

soprattutto la donna, ha dovuto rinunciare ad avanzamenti di carriera per poter

sostenere la vita familiare. Questo rilievo umano nella considerazione del lavoro

dei coniugi passa in secondo piano soprattutto nei tempi di crisi economica,

quando il problema più importante è arrivare a fine mese, ma non può non

emergere lungo il percorso della vita a due, nella stima del contributo di

ciascuno all’edificazione del futuro comune. Soprattutto affiora quando i genitori

proiettano sui figli le loro attese per la scelta degli studi e del futuro

professionale. Anche questo tema si fa strada con fatica nel vissuto e nella

conversazione familiare, non s’inserisce facilmente nel cammino educativo, non

ritorna con naturalezza nel dialogo familiare. Eppure incide profondamente sulla

vita comune della coppia, sulla sua capacità educante, sul futuro dell’identità

dei figli.

Il terzo fenomeno riguarda soprattutto, ma non solo, i paesi poveri, anche

se oggi è presente nelle zone depresse dell’Occidente: emerge sempre più la

difficoltà a un lavoro stabile e rimunerato. La grave crisi che ha travolto le

società occidentali e la povertà endemica dei paesi del terzo mondo pongono

oggi una grande domanda di solidarietà e responsabilità, mettono in discussione

una visione economicistica del lavoro, come ci ha detto Benedetto XVI nella

Caritas in veritate. E richiedono una profonda trasformazione che deve incidere

sulle istituzioni internazionali, sugli stati nazionali e sulla dinamica del mercato,

sulle relazioni industriali e sindacali, sulle forme della cooperazione

internazionale e del lavoro associato. Qui si apre un ampio spazio di riflessione

sul tema del lavoro e sulla sua incidenza nella vita di famiglia, che dovrà essere

svolto analiticamente. Esso potrà diventare persuasivo solo riferendosi, almeno

qui da noi, alla condizione attuale della società post-industriale che pone

problemi del tutto nuovi all’organizzazione dei tempi di lavoro e della vita

familiare.

La riflessione sociale sul lavoro mette in luce profonde trasformazioni,

senza comprendere le quali anche il vissuto quotidiano delle famiglie corre il

rischio di non riferirsi realmente all’epoca presente. Qui è possibile fare un

cenno soprattutto a un duplice cambiamento: la flessibilità del lavoro è

connotata da una diversa organizzazione dei tempi di formazione e dei tempi di

lavoro; vi sono modalità diverse di rapporto del tempo di lavoro con il tempo di

riposo e/o della festa, con la tendenza a separare questi ultimi due. In ambedue

6

i casi il rapporto del lavoro con il tempo è decisivo, e il cambiamento dei modi di

relazione con il tempo incide non solo sul senso della festa, ma anche sull’esperienza

del lavoro. Tra lavoro e festa, tra tempo feriale e tempo festivo

s’instaura un rapporto complesso, che non può rimandare solo alla festa per

un’esperienza umanizzante del tempo, né può confinare soltanto nel tempo di

lavoro i modi di abitare e trasformare il mondo. I confini sono più sfuggenti e gli

intrecci aprono possibilità più interessanti. Nuove possibilità non diventano

subito realtà, se non con l’intelligente comprensione dei nuovi mutamenti, ma

anche con la decisa azione a scioglierne le ambiguità.

Il primo cambiamento riguarda il rapporto tra tempo di formazione e

tempo di lavoro. La società che si è affermata con la prima e la seconda

rivoluzione industriale e che è giunta fino agli anni ’70 del secolo scorso era

caratterizzata dalla separazione dei tempi di formazione dai tempi di lavoro: un

numero relativamente limitato di tecnici e specialisti guidava una grande massa

di lavoratori a cui erano affidati compiti prevalentemente esecutivi. Oggi con

una forte innovazione tecnologica in continuo progresso s’impone il tema della

formazione permanente, che richiede di pensare in maniera creativa l’alternanza

dei tempi di formazione e di lavoro. L’organizzazione dei tempi di lavoro e di

formazione diventa quindi molto più flessibile e apre anche nuove opportunità:

se non è più possibile pensare alla difesa ad oltranza del posto fisso di lavoro

perché nel nuovo contesto diventa talvolta controproducente, certo bisognerà

vigilare perché una società delle attività lavorative non riguarda solo il lavoro

salariato, ma tutta quell’attività che presiede alla crescita umana, dell’uomo in

tutte le sue dimensioni, liberando energie per attività volontarie, collocate

anche al di fuori della valorizzazione mercantile. La flessibilità richiesta da

questa nuova organizzazione dei tempi di lavoro e di formazione si distribuirà in

modo diverso in futuro generando nuovi stili di vita che influiranno in modo

prevedibile sulla famiglia e sulle relazioni tra i suoi membri. Generando forse

nuove fatiche e una gestione molto diversa del tempo, ma anche nuove

opportunità di presenza e di azione dei componenti familiari. In alcune nazioni,

le imprese di grandi dimensioni attuano già forme di lavoro family-friendly, che

consentono di conciliare esigenze di lavoro e impegni familiari, per la cura dei

figli, degli anziani o per altre ragioni familiari. Questo nuova organizzazione del

tempo di lavoro potrà influire beneficamente sulla soluzione del problema della

donna nella conciliazione di lavoro e famiglia.

Il secondo cambiamento riguarda il rapporto tra tempo di lavoro e tempo

di riposo e/o libero, e del nesso di quest’ultimo con il tempo della festa, con la

tendenza a disgiungere il riposo settimanale dalla festa. Tale tendenza ha un

influsso negativo sulla vita di famiglia, perché la separazione di tempo di

riposo/libero e tempo della festa è concepita più in rapporto all’individuo e alle

sue esigenze lavorative, che per favorire il senso antropologico, sociale e

teologico della festa. Nella gestione del lavoro, la possibilità di organizzare la

7

scelta tra tempi di lavoro, tempi di formazione e tempo libero trascende spesso

la misura settimanale e/o annuale e ci si orienta a prendere come riferimento

l’intero arco di vita degli individui. Ma qui occorrerà operare un ripensamento

profondo del rapporto tra lavoro e persona, che non sia impostato solo

sull’avere, ma anche sull’essere e sul suo divenire persona in termini di

relazionalità. In questo senso la costruzione dei legami, che si realizzano nelle

relazioni gratuite di ogni giorno e nella libertà della festa, richiede di imprimere

agli spazi di maggior tempo libero, favoriti dalle nuove forme di lavoro, l’urgenza

di far ritrovare nuovi stili di vita per la famiglia evitando l’ipertrofia lavoristica.

C’è una stupenda preghiera della liturgia che ci può aiutare ad abitare il

lavoro inserendolo nello stile di famiglia e a tener vivo il dialogo con la

componente lavorativa ed economica nella vita della casa. Essa invoca così:

«Accogli i nostri doni, Signore, in questo misterioso incontro fra la nostra povertà

e la tua grandezza: noi ti offriamo le cose che ci hai dato, e tu donaci in cambio

te stesso» (Preghiera sulle offerte della XX Domenica per annum). Il testo della

liturgia afferma che la vita è il luogo del meraviglioso incontro tra la nostra

povertà e la grandezza di Dio. La realizzazione di questo prodigioso scambio si

realizza in un incontro tra il lavoro e la festa, tra dimensione “fabbrile”

dell’uomo e della donna e la dimensione “gratuita” della loro vita.

Questo è il modo di abitare il lavoro nella famiglia che ha uno stile: il

tempo produttivo dell’uomo, che si distende per sei giorni e ha la figura di un

tempo interminabile, è il luogo in cui l’uomo trasforma le cose ricevute come

dono in offerta a Dio gradita. Ciò significa che il lavoro dell’uomo e della donna

sono molto di più del loro valore mercantile, sono parte del dono di Dio che

rende possibile l’operosità distesa nel tempo. Lì occorre realizzare una libertà di

scelta e una fecondità per la vita della persona che vada oltre lo scambio di beni

e servizi. Proprio l’uomo e la donna hanno la coscienza che la capacità

produttiva ed economica dell’uomo sono dono di Dio, non solo perché sono

legate alla salute e alla serenità familiare, ma soprattutto perché devono far

crescere nella dimensione dell’essere, della comunione tra le persone e della

presenza nella società. Anzi solo come dono di Dio il lavoro dell’uomo può essere

vissuto nella sua giusta luce e misura, sperimentato come promessa di altro, del

tempo dell’incontro e della festa, del tempo donato alla vita di coppia, alla

famiglia, alla presenza dei figli, alla comunità. Senza dono di Dio non si dà opera

dell’uomo: l’opera dell’uomo diventa umana, portatrice di stile quando si fa

“offerta”, cioè capace di gratitudine e di gratuità. Questo sarà all’origine anche

di uno stile della vita di coppia che vede il lavoro come custodia e laboriosità.

Un’operosità che deve custodire l’intimità della famiglia, valorizzare il lavoro

della donna e apprezzare la fatica dell’uomo. Una custodia che anticipa la

promessa di quel dono più grande che ci è dato nella festa.

8

3. La festa: umanizzare il tempo

Il terzo modo con cui abitare il mondo della vita quotidiana è lo stile con

cui viviamo la festa. È questo uno degli indicatori più forti dello stile di famiglia.

L’aspetto oggi divenuto difficile nella condizione postmoderna è riuscire a vivere

la domenica come tempo della festa. Probabilmente il racconto di altre culture e

di altri continenti ci aiuterà a non perdere il senso originario della festa. L’uomo

moderno ha inventato il tempo libero, ma sembra aver dimenticato la festa. La

domenica è vissuta socialmente come “tempo libero”, nel quadro della “fine

settimana” (weekend) che tende a dilatarsi sempre più e ad assumere tratti di

dispersione e di evasione. Il tempo del riposo è vissuto come un intervallo tra

due fatiche, l’interruzione dell’attività lavorativa, un diversivo alla professione.

Privilegia il divertimento, la fuga dalle città. Spesso il sabato e la domenica si

trasformano in tempi di dispersione e di frammentazione. La sospensione dal

lavoro è vissuta come pausa, in cui cambiare ritmo rispetto al tempo produttivo,

ma senza che diventi un momento di ricupero del senso della festa, della libertà

che sa stare-con, concedere tempo agli altri, aprirsi all’ascolto e al dono, alla

prossimità e alla comunione. La festa come un tempo dell’uomo e per l’uomo

sembra eclissarsi.

La domenica di conseguenza stenta ad assumere una dimensione

familiare: è vissuta più come un tempo “individuale” che come uno spazio

“personale” e “sociale”. Il tempo libero seleziona spazi, tempo e persone per

costruire una pausa separata e alternativa alla fatica quotidiana, mentre la festa

genera prossimità all’altro. Il tempo libero fa riposare (o fa evadere) l’animale

uomo per rimetterlo a produrre, mentre il tempo della festa dà senso al tempo

feriale. L’estensione del tempo libero non significa quindi subito un ritorno e un

ricupero della festa. E, tuttavia, abbiamo visto come la nuova organizzazione del

lavoro, con la diversa dislocazione tra tempo di produzione, tempo di formazione

e tempo di riposo, aprirà nuovi spazi per la responsabilità dei membri della

famiglia, per ritrovare i momenti per celebrare la festa nella comunità e favorire

l’incontro nella società. La dilatazione del tempo di riposo e del tempo libero

non è subito il ricupero del tempo della festa: se prima questo era affidato al

calendario, oggi si apre uno spazio di scelta più grande per vivere la festa, in

particolare la domenica, come un momento prezioso per dare senso al tempo

libero. Non è il tempo di riposo che fa la festa, ma è la festa che riempie il

tempo libero. Le relazioni con gli altri e con Dio, la festa in casa e nella

comunità, la celebrazione eucaristica della domenica, lo spazio della carità e

della condivisione sono le note che fanno del tempo libero non un momento

vuoto, ma celebrano la gioia della festa.

Infatti, la vita come un dono è ciò che viene celebrato nel giorno della

festa. Il debito originario nei confronti degli altri e dell’Altro è lo spazio per

abitare la festa, per dare senso anche al lavoro delle mani dell’uomo. Il tempo

9

feriale non sta senza il giorno della festa, da essa riceve il suo significato.

L’opera dell’uomo non vive senza il dono che la rende possibile. E, inversamente,

la festa dispiega la sua luce e la sua forza nei giorni feriali, allo stesso modo che

il dono di Dio, il dono della generazione, il dono della vita dischiude lo spazio

alla libertà per essere accolta e spesa. Per questo il rapporto tra la festa e il

lavoro è di uno a sei: l’uomo impiega sei giorni per rendere il dono di Dio opera

propria, ma l’agire dell’uomo si concentra nel giorno primo e ultimo per

accogliere il dono di Dio e dell’altro.

Il testo sopra ricordato conclude in modo sorprendente così: e Tu donaci

in cambio Te stesso. La preghiera della liturgia chiede in cambio non solo la

salute, la serenità, la gioia, ma nientemeno che l’incontro con Dio stesso. Il

senso della fatica feriale è di trasformare il nostro lavoro in offerta grata, in

riconoscimento del debito verso il dono che ci è stato fatto, la vita, il coniuge, i

figli, la salute, il lavoro, le nostre realizzazioni, le nostre cadute e riprese. Di più

il senso della fatica feriale è quello di dire che l’uomo non è solo l’essere del

bisogno, ma l’essere della relazione. Per questo, l’uomo e la donna, ma

soprattutto la famiglia, hanno bisogno di iscrivere nel loro stile il senso della

festa, non solo pensandosi come una società di bisogno, ma come la comunità

dell’incontro con l’altro.

Nello scambio con l’altro, diventa possibile l’incontro con Dio che è il

cuore della festa. Tu donaci in cambio Te stesso, termina in modo ardito la

preghiera! L’uomo osa chiede in cambio di varcare la soglia per vedere il volto di

Dio, per entrare nella luce della sua comunione. Ciò fa ritrovare a ciascuno il

proprio volto, non solo il volto di chi dà una mano, ma il volto della persona, il

volto della promessa, il volto della pace e della gioia. Per questo la mensa della

domenica è diversa da quella di ogni giorno: quella di ogni giorno serve per

sopravvivere, quella della domenica per vivere la gioia e l’incontro. Solo in

questo modo si trova tempo per Dio, spazio per l’ascolto e la comunione,

disponibilità per l’incontro e la carità.

Nella liturgia domenicale e nel suo culmine che è l’Eucaristia del giorno

del Signore, Dio ci approva e ci accoglie. Siamo amati da lui nonostante le nostre

differenze e le barriere che noi costruiamo. La liturgia ci “rapisce” – dice il

filosofo Pieper – dal processo lavorativo e dai suoi legami, e ci introduce nel

regno della libertà e dell’amore. Quei legami asservono l’uomo al giogo della

necessità, quelli istituti dalla comunità eucaristica sono legami che ci fanno

uguali, anzi ci rendono fratelli. Essi ci tolgono del regime dell’uti (dell’utile) e ci

immettono nella circolazione benefica del frui (del compiacimento): l’altro

diventa luogo d’incontro e di gioia. Il tempo e il rito della domenica è –

soprattutto per la famiglia – il momento per uno sguardo nuovo sulle relazioni

familiari, anzi per alimentarsi al dono del Pane di vita, sorgente di energia per

accogliersi, perdonarsi, amarsi di nuovo, aprire il cuore alla carità e alla

missione. La celebrazione dell’Eucaristia può essere tutto questo soltanto se si

10

dispone ad “accogliere in cambio” nientemeno che Dio stesso. Il Dio che non può

essere oggetto di scambio, nella condiscendenza del suo Figlio, morto e risorto,

sì dà in cambio, sta in mezzo a noi come uno che serve, perché ciascuno ritrovi il

proprio posto. La domenica il Signore “ridistribuisce” i posti alla sua mensa

scompaginando le nostre distanze umane; nel Giorno del Signore la famiglia

ridisegna i suoi rapporti e li rigenera nutrendoli al corpo dato e al sangue

versato. Così anche alla mensa di casa la famiglia potrà mangiare il pane

dell’amicizia e bere il vino della gioia.

La domenica (dies dominicus) diventa, allora, figura della speranza

cristiana, giorno del Signore Risorto. Il tempo della festa è il tempo della

gratuità, che dà senso al ritmo feriale. La domenica non è un giorno accanto agli

altri, ma il senso dei giorni dell’uomo, è il “signore” dei giorni, l’attesa del

tempo escatologico. E da qui si irradiano anche tutte le altre feste che costellano

l’anno liturgico e civile e che declinano il tempo come un tempo dell’uomo, con

le sue stagioni, non solo della natura, ma anche della vita.

+ Franco Giulio Brambilla

co-presidente del Comitato scientifico preparatorio

del Congresso Teologico-pastorale

Corrispondenza post Giornata Regionale di Studio, Milano, 21 gennaio 2011

Esimio Vescovo,


Reverendo Monsignor Franco Giulio Brambilla



sono stata contenta ieri di esserci alla Giornata Regionale di Studio! Contenta per averla incontrata, conosciuta, poi, in cuor mio, spero veramente che si faccia meno studio e più azioni!

...dove "tante parole ci hanno portato" lo stiamo vedendo: dalla realtà delle nostre case, del condominio, del circondario, del paese, della città, della regione, dello stato, della Chiesa...qui come in ogni luogo in tutto il Mondo!



Basta!



Il Signore con la Sua parola, col Suo esempio, tutto ci ha donato, tutto si è donato, tutto ci ha indicato per fare di meglio e di più per questo Suo Mondo!

E ora, davanti agli occhi di tutti, a cominciare dai miei, ci mette la REALTà di questo mondo, pertanto si aspetterebbe di vedere che finalmente qualcuno, praticamente cominci a fare qualche cosa!

Qualche cosa ho provato a dire ANCH'IO!



Vede, anche lì - tra i POCHI presenti, di persone che con cui ho condiviso un po' della mia strada ce n'erano tante! e proprio da comiunciare da taluni presenti sul palcoù!...tante parole!

ma il coraggio di fare i fatti proprio no anzi "difesa" a spada tratta a scapito di chi era colpito a tradimento e che "davvero" se non ci fosse stata la famiglia alle spalle oggi ne piangeremmo il lutto!

E allora?

E ieri a sentirmi dire che oggi lui stesso sta "provando" i comportamenti scorretti, falsi, della stessa persona di cui e per cui ho lottato a denti stretti senza arrivare a niente perchè lui ha scelto di dargli ragione.

E poi il dirigente scolastico...parole!!!

E altri, sempre lì presenti, che si mascherano dietro il titolo associativo come fossero davvero i salvatori della patria, e che si tengono stretti alle poltrone...e per fare cosa?



parole...parole...parole!...e pronti a criticare a sparare...

nel mio caso ...vado avanti e oltre ...questa la mia scelta, nella certezza che Lui c'è e c'è sempre anche con me, per me!

E' con me in me, coi miei cari, coi malati che "per caso" incrociano la mia strada, ma anche i ricoverati negli Hospice, in casa di riposo, in carcere...nei docenti e nei ragazzi...nella gente per strada, di strada!....

come con piacere ho visto è anche per lei e questo mi ha dato tanta gioia!



Per questo ho cercato un riferimento mail e sono qui ora a scriverle!



La mi9a considerazione è che se oggi siamo arrivati qui, così, in questo stato di crisi, è proprio perchè "è di pochi" il coraggio della verità!



...e oggi davanti a tante macerie, la ricostruzione è proiprio a portata di tutti...o vogliamo aspettare ancora un po'! vogliamo parlarne ancora un po' e così magari...i malati muoiono, i ragazzi si perdono, e le rivoluzioni tenteranno di ribaltare gli stati, le nazioni?



...tutto è alla nostra portata! tutto possiamo fare! per quel bene che ognuno di noi pensda migliore!

è allora è bene il bene di chi cerca il meglio!

è bene anche "il non fare niente" demandando agli altri di fare, per coloro che non vogliono mettersi in discussione che "pensano semplicemente per sè"



Pensavo ai Suoi esempi....se i genitori di quei ragazzi disabili...anche con l'ausilio di tanti altri...non avesso intrapreso "azioni pratiche"...sarebbero ancora lì fermi a parlare, a rimurgiunare con dolore e tristezza sulle storie che sono diversamente buone! proprio migliori e che tanti ancora OGGI DEFINISCONO "DISGRAZIE, CATTYIVERIE DI DIO!"...e fermiamoci qui!

Alla fine ogni storia è bella, ci è donato di condividere il buono che da subito è buono e ci rafforza tra di noi; il "buono nascosto dentro la difficoltà" per mettere alla prova IL FRUTTO DELLA NOSTRA CONOSCENZA E DELLA NOSTRA ESPERIENZA!

...ci prova per vedere se davvero siamo creswciuti nel Suo Amore!



E allora...abbiamo il coraggio di andare avanti nella strada del Suo Amore e impegnamoci a seminare il nostro bene proprio dappertutto!



E lei continui ad essere il BRAMBILLA DOC, ora Vescovo!...troppo bravo e potrà fare proprio tanto, tanto bene!...davanti ha Lui e dietro tanti la seguiranno!...e ci sono anch'io!



Un caro saluto! un abbraccio fraterno e gli auguri più cari!



Un saluto da Bergamo, da me che cerco di fare il meglio che posso, andando avanti a fare giorno per giorno le cose che "mi capitano!"...e che non sono mai per caso!...anche come laica domenicana, in Maria S.S. e in San Domenico



Ci accumuni sempre la preghiera...l'energia che Lui non ci farà mai mancare per andare avanti nonostante tutto e tutti!



Con tanto sincero affetto!

Marcella
(suor Raffaella Maria Caterina O.P.)

PS/.: non rileggo...rischierei di "allungarmi" ancora...

...dialogo familiare!



  • ciao amo.

    • Ciao mammmmmiiiiii

    • ...in questi giorni sei "più bella"
    • bugia :P c'ho un'ansia...

    • no...no...per? ...prepara...il CV sportivo......e vediamo...addirittura linguaccia???!!! :-*

    • perchè non riesco a studiare. sono lentissima e assonnatissima. Adesso mi metto, vediamo :D è una linguaccia simpatica :D cosa vuoi che metta nel cv?intendo, per renderlo più sportvio?

    • ...quello che ti "butta il cuore!"...un bacio teso.tvttb

    • ah mamma! ho trovato anche il contatto dell'ufficio stampa della juve e ha fatto lettere anche lui
    OTTIMO!!!! ...bisogna farli SEMPRE NOI I PASSI CHE SENTIAMO BUONI....al resto pensa Lui...non dobbiamo dubitare SE I TEMPI SI ALLUNGANO! Lui sa qual è il tempo giusto per noi,...per NOI SAREBBE IL MOMENTO GIUSTOI QUANDO PENSIAmo che "quella cosa" si deve realizzare...pertanto subito secondo il nostro pensiero....MA è MEGLIO LASCIAR FARE lUI...CHE è il migliore sempre!...FIDIAMOCI, FACCIAMO...E ANDIAMOGLI DIETRO! LUI è SEMPRE DAVANTI A NOI, MA CI COPRE SEMPRE ANCHE LE SPALLE!!!
    • ...COME VEDI...non cambio mai!...sono terribile!!! un bacio

    • SEI LA MIGLIORE!!!


    • un bacio GROSSISSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSIMO!TI ABBRACCIO FORTISSSIMISSSSSSSSSIMOO ...piena di difetti...ma solo quando qualcuno me li mette in luce vedo che ho molto, molto molto per fare di meglio e di più! tvtb

  • mamma, se fossi perfetta saresti Dio. A me piaci così :D
    sto finendo una lettera per (---)...cerco di contenermi!...ma sai com'è!!!
    sai ben esprimere il succo dei tuoi concetti. Se riesci a togliere tutto (o quasi) quello che c'è intorno, gli permetterai (al succo) di emergere maggiormente
    ......quello è il fine che ci aspetta tutti! ed è bellissimo...peccato che cpesso - tutti - soprattutto quando ci privilegia in un ruolo dove potremmo mettere in pratica i Suoi insegnamenti, subito ci sentiamo "dei"...e anzichè PRATICARE IL BENE, lo predichiamo....e allora combiniamo sempre tanti guai...del resto il mondo d'oggi ce lo sta presentando l'esito di "tanti falsi predicatori!"...
    mamma, che è successo?
    ...vedi amo! hai ragione...dovrei scrivere e poi rileggere CANCELLANDO IL DI PIù...ma il mio rischio è sempre quello di aggiungere...imparerò vero? ...no no niente...solo considerazioni anche alla luce del convegno di ieri...tutti a PARLARE e a dire...che BIOSOGNA PARLARE, FARE CONVEGNI....ma cavoli....non abbiamo ancora capito che bisogna fare???
    è comodo dire, per mostrare che si è interessati, ma sporcarsi le mani è dura...
    ...se quell'aiutante sulla nave Concordia che ha messo in salvo tanti...rischiando di restarci e di morire su quella nave con la sua gamba rotta....avesse atteso il comnando di fare da un comandante che non c'era...pensi quanti di più magari non si sarebbero salvati! di fronte all'emergenza...che ognuno cominci a fare...e l'esempio trascina più di tante parole...l'esempio buono coinvolge!
    NOI AMIAMO SPORCARCI LE MANI....e dobbiamo esserne fieri!!!
    ...alla fine Lui ci vuole così...manovali della Sua parola...e i concetti ce li dona Lui senza scervellarci troppo!...
    :)
    importante è vivere a pieno la nostra vita...così come ce la prepara ogni giorno...
    ....anche piena di tanti ..."Marco": è il tuo personal trainer...si dice così?
    ...poi quando Lui riterrà che ti ha ben allenata comincerà a farti "correre da sola"...mica vuol rischiare che ti fai male a farti fare se non ti ritiene ancora così pronta su ogni fronte!!! ...champion!
    :D sei davvero la meglio, mà!!!

    domenica 15 gennaio 2012

    Don Giulio, domenica 15 gennaio 2012

    Buona domenica
    don Giulio
    ______________________

    VANGELO DI RIFERIMENTO
    Dal Vangelo secondo Giovanni

    In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.

    Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.

    Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

    RIFLESSIONE
    15 gennaio 2012

    DI CERTEZZE SI MUORE DI FAME
    2a domenica del tempo ordinario

    “Che cercate? Che volete?”. È la domanda di Gesù ai due che lo seguono.

    E i due non rispondono nulla. È una difficoltà che sentiamo nostra:

    siamo tutti questuanti di piacere e di serenità.

    Nel film “Casanova” di Lasse Hallstrom al protagonista viene chiesto

    “Che cosa cerchi?” e il fuggiasco inquieto corteggiatore risponde:

    “Un istante che valga una vita”.



    Non è forse l’esperienza dei due discepoli che incontrano Gesù?

    Non è forse un’esperienza capitata a ciascuno di noi?

    Ci sono nella nostra vita attimi unici, irripetibili, talmente carichi

    che si stampano nella nostra memoria con particolari inconfondibili.

    Colpisce l’annotazione del Vangelo: “erano le 4 del pomeriggio”.

    Sono momenti che non sono mai legati all’avere o a un successo,

    ma sono sempre legati ad un incontro, all'incontro con una persona.



    Il brano si apre con i due che "fissano lo sguardo" su Gesù

    e si chiude con Gesù che "fissa lo sguardo" su Pietro.

    È l’incontrare uno sguardo che ti penetra,

    è sentirti chiamare per nome da una voce che ti rimbalza nel cuore.

    Allora ti accorgi di non poter fare a meno di quella persona,

    della sua amicizia e vuoi conoscerla sempre di più.



    E il bisogno di “qualcosa” diventa il bisogno di “qualcuno”.

    Sono momenti che ci segnano e non riusciamo a dire il perché.

    Si può descrivere la luce di uno sguardo d’intesa?



    È esattamente quello che si nasconde nei dettagli di ciò che Giovanni scrive:

    dal bisogno di qualcosa: “Che cercate?”

    al bisogno di qualcuno: “Dove abiti (letteralmente "dimori" è ancora più denso e intimo).



    Non si è discepoli se Cristo è solo un dogma accettato per sentito dire,

    se Cristo è invocato come bacchetta magica da tirar fuori quando serve qualcosa,

    o è solo un totem da venerare perché non si sa mai.

    Può succedere che si confonda con fede quello che invece è fuga

    e che ciò che vogliamo da Dio non sia grazia ma supplenza.

    Esiste, cioè, un modo di avvicinarsi a Dio

    che non fa crescere come uomini, ma che fa solo anestetizzare i problemi.

    Questa non è fede, ma è superstizione!



    “Avere fede” significa mettere in gioco la fatica di cercare.

    Gesù, dice il Vangelo, è uno che passa per strada. Ma come Dio non sta in chiesa?



    Noi purtroppo ci immaginiamo un Dio troppo complicato.

    Oppure, peggio, un Dio "salumiere" che sta al bancone, dal quale si va ogni tanto

    per chiedere 2 etti di speranza tagliati fini, una fettina di forza, eccetera.

    Un sorriso di cortesia, pago alla cassa e me ne torno alla mia vita e lui sta alla sua.



    Il Signore, invece, vuole solo essere l’immancabile "Passante", ossia colui

    che attraversa insieme a noi, ogni giorno, la strada del quotidiano.

    Colui che passa con noi le giornate tutte uguali.

    Come quei discepoli dobbiamo imparare “a vedere Gesù che passa”.

    Dobbiamo abituarci a far passare Dio nei nostri gesti abituali,

    nel solito lavoro, nella nostra stanchezza, negli smarrimenti,

    nelle nostre difficoltà, nelle nostre speranze, nelle nostre storie.

    Il segreto è semplicissimo: andare a liberarlo

    dalle gabbie dorate dentro cui ce lo teniamo tranquillo e ammaestrato.

    Troppo spesso lo invitiamo solo per i funerali o per disgrazie che ci spaventano.

    Attenti, Dio non fa nemmeno l'assicuratore di mestiere.



    Ogni tanto chiamiamo Dio nella nostra vita anche per le cose belle e buone,

    per le cose che ci emozionano, che ci fanno sorridere, gioire, godere.



    Ci serve il coraggio di cercare Dio “per niente”, come si fa con gli amici veri.

    La fede parte proprio da quella domanda: “Maestro, dove abiti?".

    Non comincia quando si è convinti, ma quando si decide di cercare.

    Anche in mezzo a mille dubbi e crisi, confusioni, errori

    (come Samuele nella 1a lettura che non sa riconoscere la voce di Dio e gira a vuoto).

    Proprio come l’amore: vive sempre tra mille speranze incerte e mille dubbi sguscianti,

    ma sa cambiare e colorare una vita.

    È una strada e non un traguardo.

    Se l’amore vivesse solo di certezze morirebbe di fame.



    Anche noi, allora, come Pietro sentiremo il Signore sussurrare il nostro nome,

    ma in modo nuovo, dentro un’intesa di occhi luminosi,

    nella sintonia di sguardi che si incontrano e chiedono di diventare "occasione".



    La fede è una "scommessa": ma è la scommessa di Dio su di me.

    Non è la mia scommessa su di Dio,

    ma è rendersi conto che Dio ogni giorno scommette su di me

    per rendere migliore il mondo che lui ha creato.

    Solo chi ti ama scommette su di te, comunque e nonostante tutto.

    E questa scommessa è quell’istante "che vale una vita".

    La fede è come l’amore: se vivesse solo di certezze morirebbe di fame.



    Che il Signore ci doni il coraggio e la gioia di far diventare opportunità

    le scintille di luce che ci passano davanti agli occhi

    perché dentro queste si nasconde quell'istante che vale una vita. =

    giovedì 12 gennaio 2012

    Anno 1963-1964 tutti noi in famiglia con lo zio don Giovanni

    ... emozione, commozione!...pensieri che si rincorrono...come le lacrime che sigillano sempre i ricordi!
     ... è sempre bello riuscire a ricordare!
    Qui ci siamo tutti, insieme allo zio don Giovanni, fratello del nonno Battista, il papà della mamma:
    mamma, Graziella (Maria Grazia), lo zio prete, io dietro a Romano (Pier Romano) e papà.

    venerdì 6 gennaio 2012

    Don Luigi Verzè, uno che ha sempre creduto in Lui!

    ...sì, don Luigi Verzè è uno che ha fatto della Sua storia la sua storia; nella sua storia ha ripercorso il cammino che il suo Gesù con la Sua vita gli aveva tracciato qui in terra così che lui, seguendolo, non avrebbe sbagliato o comunque - essere imperfetto anche lui, don Luigi - se nei momenti dello smarrimento, che tutti ci tocca di provare, avesse perso l'orientamento, gli sarebbe stato facile ritrovarla sempre, la Sua strada.
    E così è sempre stato.
    Se il suo credo, la sua fede, non fossero stati veri, autentici, l'IMPERO CHE LUI HA VOLUTO, FONDANDOLO IN GESù, SAREBBE GIà CROLLATO!
    NON è COSì.
    TUTTO SI PUò DIRE, TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTI; SI PUò ANCHE ARRIVARE A NEGARE L'EVIDENZA DEI FATTI, MA LA REALTà PRESENTE è MESSA DAVANTI AI NOSTRI OCCHI. POI POSSIAMO RAGIONARCI SU COL CUORE, CON L'AMORE O COL RANCORE, CON L'INVIDIA, LA GELOSIA: CON L'ODIO! MA LA REALTà è QUESTA ED è BELLA E LE STORIE DI CHI CI VIVE, CI LAVORA, CI STUDIA, CI FA RICERCA....DI PIù DI CHI AMMALATO Lì C'è STATO A FARSI CURARE, C'è ORA OGGI, DI CHI, USCITO, ORA VIVE LA SUA VITA è, sono, le storie belle! E comunque belle sono anche le storie di chi può anche lì essere morto, perchè se morte c'è stata è solo per la Sua volontà, di certo mai per un accanimento terapeutico, per una ricerca senza senso, per...GUADAGNARCI SOPRA usando quei corpi come merce: carne su cui operare, esaminare e il cui scopo era solo di portare a casa soldi! e ancora oggi ce ne sono tante di strutture - non solo le passate alla storia anche recentemente, ce ne sono che così impunemente ancora lavorano proprio sulla pelle di uomini e donne comuni! Di persone anch'io lì al San Raffaele ne ho accompagnate tante o ne ho mandate tante: persone alle prese con la malattia, persone che fisicamente non ho mai incontrate, che ci conosciamo per voce, per telefono, persone malate, che ora stanno bene e che mi chiamano per ricordarci, per scambiarci gli auguri nei giorni di festa!
    Questo anche a me don Luigi, la Gianna, mi hanno donato di fare: di far curare i malati e senza mai pretendere nulla.
    Non ho mai trovato parole a caso, mai solleticazioni a orientare l'altro a un intervento, a farsi operare, mai visite contornate da belle e suadenti parole di chi, appunto a parole, ti adula per portarti a decidere di farti operare "e in fretta" perchè non si può attendere oltre ...e chissà perchè - in tante altre strutture dove vigono questi sistemi di adulazione - alla fine di tutti i bellissimi discorsi di chi ti dimostra l'interesse alla tua salute, per il tuo star bene, alla fine, chissà per quale strano caso, sempre, si ERA PROPRIO LIBERATO UN POSTO PROPRIO OGGI, PROPRIO POCO PRIMA!"..."e PERCIò SUBITO, domani,si può intervenire per te"....e tanti di coloro che credendo nel bene a loro riservato, DICHIARATO in maniera particolare, parole buone, belle che quelle bocche ti riservavano, quelle persone che conoscevo, che si sono lasciate lusingare, l'indomani NON C'ERANO PIù!
    Interventi andati male!
    ...si potevano evitare?
    Qualcuno obietterebbe che, alla fine, dato che il fine è sempre arrivare nell'aldilà, potrebbero anche aver evitato altre pene, altri dolori, accorciato i tempi, e così...favorito l'azione benevola di Dio!
    ...non c'è limite a nient: tutto e il contraqrio di tutto!
    Io amo pensare di essere portatrice del mio bene che nel Suo Amore fonda le sue radici e forte di questo ho voglia di fare la mia parte di bene...che se tutti - convinti - facessimo lo stesso, a catena tutto e tutti raggiungeremmo e ovunque coll'esempio del nostro praticare il bene, porteremmo a fare il bene ovunque!...
    ed è così facile!
    Don Luigi era così!
    Non gli sono mai mancate le "racole!" le critiche, i freni, i blocchi, ma lui è sempre andato avanti e proprio oltre!
    Ci siamo incontrati, anche scontrati: il mio dire e il suo dire di Lui ci trovava concordi, ma anche avversari!
    ...ma sempre ci legava la voglia di andare avanti e di farlo il bene, lasciando perdere le cose inutili!
    ...tanto chi vuole vedere il male, trova spunti in tutto: anche negli stessi spunti dove altri vedono il miglior bene!

    Grazie don Luigi per tutto il bene che ci hai dato e ci hai lasciato. Abbiamo a perseverare nel nostro cammino di fede e di Amore e tu ora lassù in fianco al tuo Gesù possa essere dispensdatore dall'alto di tutte le cose buone che hai voluto, che hai saputo fare e ora, dalla parte dell'amore, potrai perfezionare meglio.
    Io ci credo.

    Una preghiera per te, e tu per me.
    ...come sempre, Marcella

    Questo link l'ha messo Luca Gili nella sua bacheca su Facebook.


    E' un articolo di Filippo Facci
    Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia.

    http://www.ilpost.it/filippofacci/2012/01/05/chi-era-anche-don-luigi-maria-verze/


    Grazie Luca! un abbraccio e gli auguri più cari per il tuo cammino! e sempre ci leghi la preghiera a Lui, con Lui, per Lui.
    Oggi noi ora qui chiamati a fare come ai tempi fu anche per il nostro Santo Padre Domenico:
    Che sorretti da loro anche noi abbiamo ad essere capaci di leggerla la storia di questi tempi che siamo chiamati a vivere, per fare le cose che questi tempi oggi ci chiedono!
    E anche le nostre cose saranno quelle belle buone cose che Lui ci ha tracciato....e sarà anche la nostra strada.
    Questo il mio augurio per ognuno di voi: anbbiate a volerla trovare la bellezza del Suo Amore nelle belle storie di questi nostri tempi che nella vita di tanti uomini e donne si fanno concretezza: esempi a cui anche noi possiamo oggi attingere. Esempi dove nelle vite di uomini d'oggi, ancora si perpetua la storia del Divino fatto uomo, che ha vissuto in terra, per spianarci la strada del cielo.
    Abbiamo a diventare a nostra volta esempi luminosei, tracce e compagni di strada, nel cammino di coloro che Lui ci fa compagni di questo bellissimo viaggio: la VITA.




    Quanto segue è un ritratto agiografico di Don Verzé. I più non lo leggeranno perché è troppo lungo, altri perché non hanno voglia di cambiare opinione o di mettere in dubbio la propria, mentre la maggioranza – penso io – perché in realtà non hanno nessuna opinione né interessa loro averne una: e tuttavia la esprimono. In ogni caso: se anche avessi scritto che Don Verzé era dio in terra, la cosa non bilancerebbe minimamente le castronerie che sono state scritte su di lui in questi giorni.


    Allora, io, Marcella, l'ho letto e riletto ed ho deciso di pubblicarlo qui. Merita di essere letto.
    Al di là di tutte le ragioni di questa terra, lui, don Luigi, la bellezza dell'incontro con la Luce, col Suo Gesù, l'ha già ottenuta: questo il meritato, ambito premio per cui ha lottato tenacemente tutta la sua vita, sino alla fine.
    Possa fare altrettanto anch'io! possa arrivare a vederlo il Tuo Volto, possa arrivare portandoti cesti colmi dei frutti che ogni giorno cerco di coltivare, di curare, dal dissodare la terra, all'ararla, a seminarla, irrigarla, bagnarla; tutto cerco di curare con attenzione per evitare i parassiti che possono rovinarla e le erbacce che possono soffocarne la crescita...a....: tu sai che non mi tiro indietro, che non lesino le fatiche, non evito nessun lavoro manuale, non rimando a domanim, ne demando agli altri: faccio e coinvolgo gli altri, questo sì! Le cose condivise sono le più belle: ci fanno crescere tutti insieme!
    O mio Signore, che possa davvero presentare a te le mie mani stanche e dure, cariche d'amore. 
    E ora, a tutti voi, auguro una buona lettura, con l'onestà del cuore, Marcella

     °°°

    C’è gente come Armando Torno (Corriere.it) che ha scritto la biografia di Don Verzé copiando testualmente da Wikipedia: neanche una virgola spostata. E ci sono poveracce come Antonella Mascali, sul Fatto Quotidiano, che nel giorno della morte di Don Verzé lo ha liquidato come un bancarottiere, un megalomane, uno «amico dell’ex capo del Sismi» col suo «ospedale tanto caro a Craxi, Berlusconi e Formigoni». Ora: il San Raffaele, una delle poche eccellenze italiane che dialoga con le grandi istituzioni mondiali – un polo di ricerca in cui sono curati migliaia di malati che giungono da ogni parte d’Italia – forse meritava biografi meno sbrigativi. Fa niente, cominciamo pure dalla fine e mettiamo subito a verbale che il San Raffaele non è più quello di una volta, e pure da un pezzo: da ben prima, cioè, dei casini finanziari che ora tralasciamo. Perché il San Raffaele, ora, è soltanto un ottimo ospedale lombardo come altri, in qualche caso anche peggiore: è infarcito di medici bravissimi o da prendere a pedate, come altrove, e i paramedici sono caritatevoli o subumani analfabeti, come altrove: e soprattutto come altrove – anzi di più – il San Raffaele è un posto in cui la musica e la salute cambiano se sei raccomandato o semplicemente se paghi, anzi se sei «solvente». Il dettaglio è che gli altri ospedali, prima del San Raffaele, non c’erano, non esistevano, non erano ospedali per come li intendiamo oggi, e per come il San Raffaele ha ridefinito che dovessero essere con effetto splendidamente trainante. Non ci crederete, ma è così.



    Don Verzé poteva anche stare sulle palle, ma resta un uomo che nella sua lunghissima vita ha fatto più cose (buone) di quanto riuscirà la maggior parte di noi messi insieme, un uomo che per realizzarle ha combattuto la Chiesa e lo Stato, la destra e la sinistra, gli uomini e le donne, soprattutto la stupidità intesa come la più inguaribile delle malattie. Tanti cretini in questi giorni antepongono sempre le «ombre» ai suoi successi (quali ombre, in definitiva? I debiti?) e ignorano che gli ospedali italiani, prima di Don Verzé, letteralmente non esistevano nell’accezione moderna del termine: non come riferimenti per un ceto medio che non esisteva a sua volta, non come centri di ricerca e di studio, di previdenza e di assistenza sociale. Non è un modo di dire: non c’erano proprio, c’erano le cliniche dei baroni che si portavano appresso i malati come pacchi, c’erano le cliniche dei ricchi in mano quasi sempre a religiosi accomodanti, oppure, ecco, c’erano lazzaretti, i casermoni con camerate puzzolenti e file di cinquanta letti, lugubri cronicari con la cultura del dolore e della penitenza come unica e vetusta regola: Sergio Zavoli, su questo, ha fatto delle bellissime inchieste. Altro che diritti del malato, altro che rispetto sacrale dell’infermo e altre sciocchezze che Don Verzé, da noi, immaginò semplicemente per primo, questo per lo scandalo e per l’ostracismo di tutte le curie, del Vaticano, dell’italietta cattocomunista secondo la quale ciascuno doveva stare al posto suo, i preti in chiesa e i medici nelle cliniche tirate a lucido.



    Nato il 14 marzo 1920, Luigi Maria Verzé era figlio dell’uomo più ricco di Iliasi, un paesino in provincia di Verona. Dopo la laurea in Lettere e Filosofia con Padre Gemelli, venne ordinato prete nel 1948. Entrò nella «congregazione dei poveri servi» e resterà sempre diviso tra il diventare medico o sacerdote, mestieri che immaginerà sempre in connubio. Collaborò con Don Giovanni Calabria (futuro santo) e divenne se stesso praticamente da subito, dandosi da fare secondo visioni decisamente personali. Fu il prediletto del cardinale Ildefonso Schuster (beatificato: è l’uomo che nel 1944 salvò la vita a Indro Montanelli) ma i favori curiali finirono praticamente lì. Don Verzé cominciò a inventarsi delle scuole di avviamento professionale per ragazzi di periferia (falegnameria, officina, stamperia e motoristica) e un centro di assistenza all’infanzia. Cominciò a pensare a delle case-albergo per anziani. Nel 1951 ottiene una parrocchia sul pratone di Cimiano, in zona Palmanova-Segrate, ed ecco sopraggiungere il pallino dell’ospedale. Ne aveva in mente uno di nuova concezione e cominciò a studiarci sopra: andò in Olanda e in Belgio per vedere i reparti di dialisi, in Svizzera per le sale operatorie, in Germania per i servizi sociali già all’avanguardia. Il suo esempio negativo, per contro, in quel periodo è il Cottolengo di Torino. Don Verzé era già un tipo sui generis: aveva la patente, guidava una Fiat 1100 bianca (col cambio moltiplicatore) e vantava amici disparati come il futuro sindaco socialdemocratico Virgilio Ferrari e poi Ferdinando Innocenti, il creatore della Lambretta. Si muoveva, parlava, progettava. Aveva un’altra idea eretica: creare una facoltà cattolica di medicina ma senza la scritta «cattolica» sul frontone, così da evitare contrapposizioni e promuovere un cattolicesimo più laico. Raccolse subito entusiasmi ma anche dubbi e dinieghi, soprattutto per la sua idea di rivoluzione ospedaliera. Dati i tempi e la mentalità, ce n’era già abbastanza perché le preoccupazioni della Curia diventassero ufficiali. Nel 1957 l’insofferenza porporale era già palpabile. Venne convocato il 20 dicembre e gli dissero chiaro e tondo che se non si fosse calmato gli avrebbero tolto l’incarico alla parrocchia di Cimiano oltreché i laboratori e tutto il resto. Lui si difese – è tutto agli atti – e srotolò l’ambizioso progetto per un grande ospedale universitario, come faranno negli USA negli anni Ottanta: il piano era già avanti – disse – e aveva la parola del sindaco oltre a idee innovative per i reparti: l’idea era di mettere a disposizione di tutti le terapie più moderne in camere con al massimo due o tre letti. Accennò anche a come trovare i soldi, a piani di marketing, insomma parlava un’altra lingua. I prelati lo guardarono come quello che in parte era: un pazzo. La Curia lo esonerò. Decretò che doveva andarsene da Milano, destinazione Verona.



    Era solo una battaglia in una guerra che non sarebbe finita mai, o che forse è finita in questi giorni. Decise di rimanere a Milano, anche senza una parrocchia. Prese a dormire dalla sorella, in viale Romagna. Non aveva un posto dove dir messa, ma il professor Emilio Trabucchi, un amico, gli mise a disposizione la cappella dell’istituto di farmacologia. Nella sua ex parrocchia di Cimiano, intanto, proseguiva clandestinamente la costruzione di laboratori attrezzati per seicento ragazzi e cento bambini, compreso un asilo. Ma era pur sempre un prete scardinato, la cosa pesava. Nel 1958 bussò all’arcivescovo Giovanni Maria Montini, il futuro papa: fu la prima di varie visite inutili. La sua idea di ospedale non interessava: doveva andarsene a basta. Ma niente da fare: sarebbe rimasto a Milano come apolide della Chiesa: per cavarsela insegnò religione in un paio di scuole pubbliche e strappò l’incarico di cappellano alla nuova clinica privata La Madonnina. Si mosse, imparò, studiò, parlò del suo progetto con medici e specialisti. Venne coinvolto nella realizzazione degli asili della Diocesi, si inzaccherò gli stivali nei cantieri, fece nuove amicizie e si comprò un’eretica Mercedes a nafta: quasi come comprarsi, fatte le proporzioni, un bell’aereo Challenger 604. Fatto sta che la voce delle sue idee pazzoidi continuava a girare e la sua intraprendenza e popolarità parvero eccessive anche per un apolide. La Curia non perdonava. Gli proibì di celebrare messa anche nella cappella di farmacologia, ma l’amico Trabucchi se ne inventò un’altra e lo mandò dalle suore domenicane che assistevano gli ammalati della clinica Città di Milano: si sarebbe occupato di amministrare la clinica più un paio di istituti nel lecchese e nel bergamasco.



    Non si fermava mai. Sopra Como, a San Fermo della Battaglia, vide un istituto per bambini abbandonati: era fatiscente, l’umidità grondava dai muri, una pena. Si fece dare 300 milioni da un paio di industriali e accese un mutuo alla Bnl. Fece e farà sempre così: richieste assillanti, assedi dai riccastri vari, finanziamenti, mutui, faremo e vedremo. Come a Milano in via Gallarate: affittò una casa per anziani, abolì gli stanzoni e previde dei posti letto anche per i familiari, e all’epoca era una rivoluzione. Ebbe così successo che arrivarono da tutt’Italia ex insegnanti, magistrati, professionisti: l’arcivescovo Montini fu praticamente costretto a concedere la benedizione. Succedeva il 5 luglio 1960. Quando poi le case di riposo divennero due (250 anziani ospiti) il Vaticano lo guardò sempre più in cagnesco. Troppo dinamico, troppo maneggione, troppa confidenza col denaro. Dal convento che Don Verzé amministrava, quello delle suore domenicane, partirono delle lettere anonime dirette all’Arcivescovado: roba pepata, Dagospia ci sarebbe impazzito.



    Quando si ripresentò dall’arcivescovo Montini nel tentativo di chiarire, il clima era immaginabile. L’Arcivescovo – lo racconta Giorgio Gandola in «Pelle per pelle», Mondadori 2004 – gli pose cinque solenni «quaestiones» così formulate: è vero che era entrato nel reparto riservato alle suore? E’ vero che andava in auto con donne varie? E che rincasava tardi sempre in compagnia di donne? E che insomma, tra le suore aveva portato turbamento? Che in pratica si era intromesso nell’andamento spirituale della congregazione?



    Le accuse restarono anonime e ogni confronto fu negato: «L’odio curiale», disse testualmente Don Verzé a Giorgio Gandola, «è anche peggiore di quello delle donne». La Curia gli tolse il poco che gli era rimasto: l’incarico di cappellano alla clinica La Madonnina, la supervisione degli asili della Diocesi e il contributo per l’orfanotrofio di San Fermo. Gli fece persino annullare il mutuo della Cariplo che il Comune di Milano aveva garantito in vista della costruzione del mitico ospedale. Montini, secondo Verzé, disse così: «A Milano, chiunque metta in piedi una pompa di benzina cava soldi facilmente. Sono cose buone, ma sono laiche, come laica è l’opera che lei sta realizzando. Torni a Verona a fare il buon prete». Andò in un altro modo.



    Chi era – anche – don Luigi Maria Verzé


    5 gennaio 2012

    28 Sicché all’inizio degli anni Sessanta Don Verzé era un uomo triste, o avrebbe dovuto. Aveva poco più di 40 anni, possedeva solo un cane – un dalmata – ed era un prete apolide che non sarebbe mai stato incardinato: non a Milano, dove la Curia gli aveva tolto quel poco che gli era rimasto. Aveva perso l’incarico di cappellano alla clinica La Madonnina, la supervisione degli asili della Diocesi, persino il contributo per l’orfanotrofio di San Fermo. In pratica aveva perso quello che aveva fatto e c’era un’ipoteca su quello che avrebbe voluto fare, perché il porporato stava cercando di annullare il mutuo della Cariplo che il Comune aveva garantito per costruire il San Raffaele, quell’ospedale umano e scientifico (forse fantascientifico) che la Chiesa per qualche ragione considerava eresia. Don Verzé non mollò. Riuscì, non si sa come, a convincere il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli a scrivere un articolo a favore del progetto. Riuscì pure, non si sa come, a far riconoscere la sua associazione – quella per l’edificazione dell’ospedale – come persona giuridica: il capo dello Stato Giovanni Gronchi, il 19 novembre 1962, mise la sua firma dopo estenuanti passaggi. Lo Stato, in pratica, aveva sorpassato la Chiesa nel recepire l’idea di un centro ospedaliero di ricerca e previdenza ideato da un prete: altro paradosso che il Vaticano non avrebbe mandato giù. Nasceva così l’Associazione Monte Tabor, a cui sarà legato per sempre il nome del San Raffaele.



    Però la Curia, intanto, lo processava. Lo convocarono a Roma e gli chiesero conto delle sue presunte spensieratezze con alcune suore domenicane e delle questioni economiche dell’ospedale. Anche il dialogo che ne seguì è riportato in «Pelle per pelle», Mondadori 2004: «Mi dissero: deve solo temere che la sua opera faccia fallimento. Se fallisce, il giorno prima si compri una pistola e si spari, oppure si butti dalla finestra del quarto piano».



    Intanto l’arcivescovo Giovanni Maria Montini, così ostile a Don Verzé, si avviava a diventare Papa: ma non per questo la situazione milanese migliorava, anzi. Il nuovo arcivescovo, Giovanni Colombo, comminò a Don Verzé la proibizione di esercitare il Sacro ministero, cioè la messa. Era il 1964 ed era l’atto finale. L’edificazione di quell’ospedale impossibile divenne un miraggio esistenziale, di lì in poi non si fermò mai più.



    Sul rapporto tra la Chiesa e Don Verzé non è più il caso di soffermarsi. Il sacerdote, visto con gli occhi di oggi, fu colpevole dei suoi meriti e delle sue opere: ciò che la stessa Chiesa, nel tempo, gli ha riconosciuto anche formalmente. A incrinare la saldatura contribuiranno posizioni sin troppo laiche: Don Verzé non voleva sacerdoti nel consigli di amministrazione, pensava che i vescovi andassero eletti per acclamazione, era favorevole al sacerdozio femminile, al sacramento dato ai divorziati e alla procreazione assistita. Non si nascose mai, e nel 2006 rivelerà di aver aiutato un amico malato, un medico, a morire: «Quando a chiederlo è chi vive grazie alle macchine, allora non è eutanasia, è un atto d’amore». Il rapporto con le gerarchie rimarrà altalenante. Il cardinale Carlo Maria Martini volle conoscerlo per le stesse ragioni per cui la curia l’aveva sempre osteggiato: le sue qualità imprenditoriali. Scriveranno un libricino insieme, e, il 20 marzo del 2010, per i novant’anni di Don Verzé, il Cardinale non mancherà.



    Ma allora, in quegli anni Sessanta, l’ospedale era ancora da fare. Fu durissima. Riuscì a sbloccare nuovamente il finanziamento della Cariplo che la Curia aveva cercato di fermare, e, a quel punto, mancava soltanto il terreno. Si parlava da anni di un appezzamento in via Novara, ma in consiglio comunale fu battaglia: l’opposizione al progetto era firmata da Pietro Bucalossi, futuro ministro socialdemocratico (poi repubblicano) ma soprattutto chirurgo e direttore dell’Istituto dei tumori. Gli si attribuisce questa frase: «Se Don Verzé realizzasse la sua idea, sarebbe la fine dei nostri ospedali». Fu minacciata la crisi di giunta e la pratica rimase congelata. Al che Don Verzé si ruppe le scatole: trovò un altro terreno in zona Segrate, tutto risaie e acquitrini, e se lo fece andare bene. Costava 120 milioni. Ne trovò dieci, per cominciare.

    Ma nell’attesa c’era da forgiare un personale nuovo, diverso. Don Verzé s’inventò l’Associazione Sigilli, formata ufficialmente «da persone che dedicano l’intera vita per il compimento della missione dell’Opera». Li crebbe a partire dal 1964: niente suore – delle quali non si fidava più, date le esperienze precedenti – ma piuttosto uomini e donne che facessero voto di celibato: una specie di scuola ufficiali per creare dei quadri aziendali che sposassero umanità e professionalità. Gente così, in giro, semplicemente non ce n’era.



    Arrivarono i primi soldi: li garantì il ministro della Sanità Lorenzo Mariotti, un socialista che procurò un mutuo agevolato di 600 milioni. Così, nella seconda metà degli anni `60, iniziarono i lavori. Il 24 ottobre 1969 i sindaci di Milano e di Segrate posero la prima pietra: e alla cerimonia non mancarono politici, imprenditori, operai e qualche professore. Mancava completamente la Curia. Il progetto prevedeva un corpo centrale con due ali a parentesi come l’arcangelo Gabriele (una pacchianata, come tante che piacevano al Don) mentre la stampa si mostrava mediamente ostile e non mancavano battute su un ospedale – dicevano – che sarebbe stato gestito da ragazze in minigonna. I primi 600 milioni finirono presto – l’opera costerà più di un miliardo – e tutto si complicava perché i poteri di spesa sanitaria, dal 1970, passarono alla Regione. Nello stesso periodo, non bastasse, un temporale abbattè la gru del cantiere che si schiantò contro l’ospedale. Lo scenario era spettrale, anche perché in zona non c’erano strade di collegamento per la città o per il vicino aeroporto di Linate.



    Ecco, Linate: è per la faccenda delle rotte aeree che Don Verzé e Berlusconi si conobbero. Il sacerdote aveva acquistato un terreno di 46mila metri quadri ma aveva già in mente di ampliarsi nella zona in cui Berlusconi progettava Milano 2; entrambi, in pratica, volevano lo stesso terreno con la differenza che Berlusconi pagava cash. Litigarono, si misero d’accordo in qualche modo. Gli aerei passavano sopra l’area e davano fastidio a entrambi, cosicché, insieme, inoltrarono una petizione al Ministro dei Trasporti e il risultato fu che le rotte furono deviate sopra i comuni limitrofi, ovviamente furibondi; la guerricciola si trascinerà per anni – con varie proteste e comitati antirumore – ma due volpi come Berlusconi e Don Verzé la ebbero vinta facilmente, chissà con quali trucchi. Un altro problema fu risolto da Berlusconi quando la magistratura scoprì un’illegalità nel cantiere del secondo lotto: le fognature non si attaccavano alla rete comunale (che sino a lì non arrivava) ma risolse tutto il Cavaliere dopo un anno e mezzo di stop dei lavori: consentì un allacciamento ai canali di Milano 2.



    L’ultimazione del primo lotto resta permeata di quel romanticismo che avvolge ogni opera un po’ disperata e improvvisata. Occorre immaginarsi il riscaldamento che ancora non c’era, le stufette a gas, i duecento letti sistemati a uno a uno, donnine che cucivano le tende, medici che imbiancavano. Da immaginare l’emozione per il primo malato, il 31 ottobre 1971: il poveretto entrò in una struttura in cui certo, mancavano ancora attrezzature e laboratori, ma per i tempi offriva un impatto completamente nuovo: le camere uguali per tutti – all’apparenza lussuose solo perché magari avevano gli asciugamani in lino – e poi le tapparelle elettriche, le pareti colorate, pulizia, umanità e gentilezza mai viste, non ultima una retta omnicomprensiva che allora era una novità assoluta.



    Questo mentre Don Verzé, per tirare avanti, continuava a fare ciò che non gli sarà mai perdonato: cercare soldi, sbattersi per scovare convenzioni. Andò da Pirelli, Montedison, Sip, commercianti, artigiani, Inam. Dal 1972 al 1977 il San Raffaele avrebbe ricoverato tremila persone l’anno con duecento medici e paramedici a contratto. Come? Coi soldi.


    Facciamola breve: il San Raffaele diverrà un’eccellenza italiana e mondiale nel giro di pochi anni. Il professor Guido Pozza sarà protagonista di importantissimi progressi nella ricerca sul diabete e nel 1983 ci sarà il primo trapianto di rene e pancreas. Sarà l’ospedale che ospiterà la prima radiodiagnostica basata sulla tac, un dipartimento di medicina nucleare di livello planetario, la risonanza magnetica, la pet, la gamma unit, una macchina per la tomoterapia in grado di curare alcuni tumori con una sola seduta (costava 12 milioni di dollari) e poi il macchinario svedese Gamma Knife (sei miliardi) che consentiva di fare le radioterapie al cervello senza aprire la calotta cranica. Le domande su dove prendesse i soldi Don Verzé, ai tempi, appartenevano alla stessa genia di chi in questi giorni guarda a lui come a una propaggine del berlusconismo. Ma gli Agnelli, per costruire l’istituto dei tumori di Torino, mandarono i propri tecnici a copiare il San Raffaele, primo ospedale italiano a informatizzarsi con un Ibm 9000 che in tutta Europa vantava soltanto un gemello. Il figlio del console sovietico, a cui a Mosca volevano amputare una gamba per il diabete, decise di ricoverarsi al San Raffaele e infatti la gamba ce l’ha ancora.



    Poi verranno i dipartimenti di biologia e biotecnologia (Dibit) in cui oggi fanno ricerca aziende come Bayer, Roche, Schering, Plough, Boeringer e Bracco. Poi verrà inaugurato il Dibit 2, che ospiterà i laboratori per la genomica. Alla fine degli anni Novanta il San Raffaele conteggerà tremila utenze ambulatoriali ogni giorno e 40mila ricoverati annui, questo con 1100 posti letto e 3000 dipendenti. Chi sparge letame su chi ha inventato tutto questo dal nulla, lavorandoci sopra per sessant’anni, è possibile che abbia avuto un amico o un parente curati al San Raffaele. E’ statistico.



    Poi ci sono le responsabilità penali di Don Luigi Maria Verzé e la sua cosiddetta «megalomania»: ciò che l’Italia giornalistica ha scritto esclusivamente per giorni.

    Non c’è dubbio, Don Verzé ha costruito il miracolo del San Raffaele anche grazie ad azzardi finanziari e a disinvolture amministrative: roba peraltro monitorata maniacalmente dalla magistratura. Di base si tratta di abusi edilizi anche notevoli (per cubatura) ma innocui agli effetti, senza i quali il San Raffaele non esisterebbe: non in questo Paese. Si tratta, poi, di una «tentata corruzione» (un anno e quattro mesi) in relazione a una convenzione con l’università Statale di Milano, roba vecchia. Torna buona la battuta di Don Milani già riesumata da Massimo Cacciari: «Se uno alla fine della vita ha le mani completamente pulite, vuol dire che le ha tenute in tasca». Tra costoro ci sono probabilmente tanti necrofori che ora mettono in parallelo l’impero mondiale del San Raffaele con una condanna a Don Verzé del 1997 (prescritta in Cassazione) per esser stato al corrente della provenienza illecita di due quadri del Cinquecento: francamente, chi se ne frega. Restiamo a cose più serie, e rinunciamo, nonostante la tentazione, a precisare alcune gravi inesattezze e omissioni riportate da Marco Travaglio su Il Fatto.



    La prima accusa a Don Verzé la rivolse un assessore lombardo della sinistra democristiana, Vittorio Rivolta, uno che pur di dargli fastidio gli progettò un altro ospedale praticamente davanti al suo, in viale Palmanova. Le varie accuse di corruzione e abuso edilizio finirono con una condanna ribaltata in appello. I due fecero pace davanti a un risotto da Savini.



    Nel novembre 1987 i Carabinieri misero i sigilli a un cantiere del San Raffaele per denuncia del comune di Segrate. Il Tar però ribaltò tutto: «Le necessità per il diritto sulla salute prevalgono sui diritti dei privati e anche il piano regolatore deve adeguarsi».

    Nell’ottobre 1993 giunse un avviso di garanzia per un abuso edilizio legato alla costruzione dell’accettazione dell’ospedale, che peraltro risultava condonata e comunque non dava fastidio a nessuno: serviva a far stare al coperto chi consegnava i documenti di ricovero. Il cantiere si fermò e Don Verzé fece appendere un cartello con relative scuse «per i disagi causati dall’inauspicato blocco della magistratura». L’accusa, nella requisitoria, disse ridicolmente che l’opera era stata realizzata per «l’arricchimento personale» del sacerdote. Primo grado: cinque mesi di reclusione e 45 milioni di multa; in Appello, nonostante Don Verzé se ne fosse fregato e avesse continuato i lavori a dispetto della prima sentenza, la pena fu ridotta a dieci giorni e a 600 mila lire. Di lì in poi, Don Verzé affiderà ogni delega operativa al socio Mario Cal, vicepresidente della Fondazione. La Cassazione ordinerà l’abbattimento dell’accettazione, e all’apertura dell’Anno giudiziario si proclamerà: «Abbiamo fatto demolire l’accettazione del San Raffaele».



    Nell’aprile 1994 arrestarono il professor Guido Pozza, quello delle scoperte sul diabete, sovrintendente scientifico del San Raffaele dal 1972: corruzione, truffa ai danni dello Stato e associazione per delinquere. Era accusato di aver avallato l’inserimento di un farmaco nel prontuario come membro del Cuf, la commissione ministeriale sui farmaci. Quattordici giorni di galera salvo accorgersi che il professore, ai tempi, non era membro del Cuf: prosciolto con formula piena.



    Nel novembre 1994, durante la presentazione del Telethon Institute of genetics and medicine – presenti Gianni Agnelli e Renato Dulbecco e il premier Silvio Berlusconi – ecco la notizia di vari avvisi di garanzia per un concorso in corruzione per una tangente da 30 milioni versata agli ispettori delle tasse. Era lo stesso periodo del mandato di comparizione recapitato a Berlusconi a Napoli, firmato dallo stesso pm, Antonio Di Pietro, personaggio che due mesi dopo non disdegnerà di pranzare con Don Verzè per discutere di politica. Gli arrestati, tra i quali il vicepresidente Mario Cal, ammisero la pratica invero diffusa di addomesticare le ispezioni contabili con mazzette varie.



    Nel giugno 1997 la guardia di finanza sequestrò 36mila cartelle cliniche per un’inchiesta sui rimborsi fantasma della regione Lombardia: tre camion di roba. Risultavano esami mai eseguiti e ricoveri al posto di prestazioni ambulatoriali. Le difficoltà per poter proseguire le terapie sui pazienti furono spaventose. L’inchiesta fece il paio con un’altra del febbraio 1999 in cui cinque primari San Raffaele finirono agli arresti domiciliari: gente di chiara fama come Salvatore Smirne e Luigi Ferini Strambi (docenti in neurologia) e Antonio Salvato (preside di odontoiatria) e Rosario Brancato (luminare in oculistica) ed Eugenio Villa (oncologia) con l’imbarazzante difficoltà dei magistrati nel dover sindacare le necessità o meno dei ricoveri. Ci fu un certo dibattito sui giornali, compreso un violento scambio epistolare tra Don Verzé e Francesco Saverio Borrelli. L’ultimo professore a essere liberato fu Eugenio Villa, l’oncologo, che si ostinava a dire: «Se rientro in servizio farò esattamente le stesse cose, non ho commesso reati, ho ricoverato chi doveva essere ricoverato». Lo difendeva Giuliano Pisapia. Le inchieste finiranno in nulla.



    L’inventore dell’ospedale accessibile e soprattutto umano, rivolto al ceto medio – altro che «curare i ricchi e i potenti», come ha scritto Marco Travaglio – per il resto fu megalomane a seconda dell’accezione del termine. La megalomania è uno stato psicopatologico caratterizzato da ossessioni paranoiche di onnipotenza: e può sembrare paranoico – secondo Aldo Cazzullo del Corriere della Sera – «allestirsi zoo e scuderie dove scelse per sé un purosangue di nome Imperator», oppure «chiamare per dirigere la sua università i migliori intellettuali italiani», oppure «comprare fazendas in Sudamerica». Punti di vista. Se un megalomane realizza gli oggetti delle sue megalomanie, oggetti grandiosi, forse andrebbe chiamato in un altro modo. Vale anche per l’università, che meriterebbe un libro intero: delle facoltà di medicina e filosofia e psicologia – presenti i migliori intellettuali italiani, appunto – è davvero difficile parlar male. Megalomania? Forse lo sono state le lettere scritte a George Bush per supplicarlo di non attaccare Saddam, ma non certo l’aver sostenuto d’aver preparato il viaggio di Wojtyla a Cuba: perché è la verità. Però ecco, restano la fazenda e il cavallo. Restano gli asciugamani di lino nelle camere dei reparti, roba che il famoso «ceto medio» peraltro si sgraffignò. E resta, nel presunto quadro paranoico, l’aver effettivamente conosciuto Madre Teresa di Calcutta a Nuova Dehli (1992) l’aver stretto amicizia con Fidel Castro (stesso anno) e con Shimon Peres e pure con Gheddafi in una tenda nel deserto, o ancora l’aver frequentato il fondatore di Cl Don Luigi Giussani – senza mai permettere proselitismi nel suo ospedale – e poi Carlo Maria Martini, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, mille altri che hanno dichiarato di ammirarlo.



    Chi era – anche – don Luigi Maria Verzé


    5 gennaio 2012

    28 Megalomane: forse perché restava comunque un prete e non soltanto uno che contava, e sapeva muoversi, all’occorrenza sapeva anche essere cinico e «minacciare» come un politico qualsiasi, o ancora frequentare personaggi legati al Sismi per tenersi informato: ma in questo era più ordinario che megalomane, più corrispondente, cioè, a ciò che spesso in Italia è stato banalmente e orribilmente necessario per fare il male e anche il bene. Come per i famosi aerei. Cioé: Don Verzé, dopo il capolavoro del San Raffaele, portò il marchio dell’ospedale anche in Veneto, Puglia, Sardegna e Sicilia; a metà degli anni Settanta si mise in testa un’altra follia totale – costruire un ospedale in una zona poverissima di Bahia dove c’erano centomila favelados e mancava acqua ed elettricità e le fogne, figurarsi l’assistenza medica, altro che «ricchi e potenti» – e ce la fece in quattordic’anni con un ponte aereo che trasportò strutture e macchinari; riuscì a edificare un incredibile «Sao Rafael» con tanto di reparto di tossicologia laddove pullulavano industrie petrolchimiche che esponevano i poveracci al benzene e altri micidiali derivati; l’ospedale pubblicò libri di tossicologia e dichiarò guerra alle multinazionali con 24mila esami diagnostici in sei anni, un’altra pazzia che oggi è un modello per tutta l’America Latina e che in Brasile ha segnato il valico tra una sanità feudale e una moderna; la Ong di Don Verzé ha costruito anche in Africa, India, Cile, Polonia, Algeria, Cuba, Palestina, Colombia, Afghanistan, Iraq e persino sulle pendici dell’Himalaya, a Dhramsala; solo per andare dall’Italia al Brasile faceva 21 ore scali esclusi, più tutti gli altri giri per il mondo dove era richiestissimo: ma ora tutti a dargli del «megalomane» perché a 68 anni decise di prendersi un aereo privato, un turboelica come l’aveva Margaret Tatcher. Seguiranno, nel 1990, un Learjet, poi un Falcon 50 e addirittura tre elicotteri per l’elisoccorso: questo mentre insospettabili omuncoli d’affari hanno l’aereo privato anche solo per la tratta Fiumicino-Linate. Grande risalto hanno meritato anche una piantagione di mango e uva in Brasile e un albergo in Sardegna.



    Una sinistra cattolica e dossettiana, lapiriana, giustizialista e pauperista, legalitaria e autoritaria, con buoni agganci in Vaticano: l’avversione storica verso Don Luigi Verzé parte da questo nocciolo e approda a personaggi – tu pensa – come Rosy Bindi. E se questi suoi detrattori si addensano perlomeno in una cultura, il resto è una sua mancanza: forcaiolismo d’accatto, sparatorie nel mucchio, dipietrismi vari, semplice non-conoscenza. E’ ciò che su un noto blog ha prodotto commenti come questo: «Don Verzé si scopava delle minorenni sul suo jet privato pagato con i soldi che mancano all’ospedale San Raffaele e al centro di ricerca». Una buona sintesi.



    Il resto spiega, o non spiega, il ventaglio di amicizie che ha sempre circondato il Don: da Massimo Cacciari a Ernesto Galli della Loggia, da Renato Pozzetto ad Al Bano, da Fidel Castro a un insospettabile Nicola Vendola che lo corteggiava perché costruisse un San Raffaele sul Mediterraneo. Poi ci sono i legami storici come quello con Bettino Craxi, che da presidente del Consiglio venne a inaugurare il «Sao Rafael» brasiliano e però gli predisse: «Attento, tu fai le cose troppo in grande». Don Verzé, nei giorni dell’agonia di Hammamet, fece il diavolo a quattro per salvare la pelle all’amico. Scrisse ripetutamente al capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, portò messaggi personali di Karol Wojtyla, cercò di trasferire in Tunisia equipe mediche varie, e nell’ottobre 1999, prima dell’ultimo intervento, si rivolse vanamente a Francesco Saverio Borrelli: «La cortese risposta fu un diligente allineamento alla legge. Avevo fatto avere tutta la documentazione clinica, sono andato discretamente, ma con la morte nel cuore, a chiedere e a supplicare: fatelo tornare, è questione di giorni. E hanno detto no. Ha detto no chi aveva il potere di dire sì».



    Del rapporto con Silvio Berlusconi, invece, si è scritto anche troppo. Sua Emittenza, nel 1994, voleva fargli fare il sindaco di Milano: «Ma non era possibile, il codice di diritto canonico non lo concede». Il sacerdote si lasciò andare a una doppia profezia: «Ora i tempi non sono maturi; ma più avanti, quando potrete confrontare l’era di Berlusconi con quella del fascismo o della Dc, vedrete quanto quell’uomo ha fatto per voi. Spero che allora si potrà capire di più anche il valore del San Raffaele, che non è un’opera di Don Verzé ma un’evidenza del cristianesimo vissuto non a parole. Solo allora potrò dire che la mia vita non sarà stata vana». Ora, invece e decisamente, non è tempo: il nostro Paese è in crisi economica e ha riscoperto il rigore dei conti dopo averlo disconosciuto per decenni. Un Paese edificato sul debito ha scoperto il debito come misura anche morale. Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, l’altro giorno ha scritto così: «Se ne fosse andato un anno fa, Don Verzé sarebbe stato ricordato come l’uomo che creò dal nulla il più grande ospedale e il più grande centro di ricerca d’Italia, a prezzo di azzardi finanziari e disinvolture amministrative». Una frase strana: perché, Don Verzé non resta «l’uomo che creò dal nulla il più grande ospedale e il più grande centro di ricerca d’Italia, a prezzo di azzardi finanziari e disinvolture amministrative»?



    Non fu solo quello, certo. E’ anche l’uomo che tra mille successi riuscì a fallire: ha costruito ai piedi dell’Himalaya ma a Roma ha dovuto abbozzare. E’ una storia che non viene mai ricordata abbastanza: quando, cioè, Don Verzé rilevò un albergo abbandonato in zona Mostacciano e in dieci anni lo trasformò nel solito ospedale modello. Ma Roma è Roma, i palazzi sono quelli. Nel 1997 il San Raffaele di Mostacciano era sulla griglia di partenza – almeno 350 miliardi spesi – e il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer firmò il decreto che sdoppiava la costipata facoltà di medicina della Sapienza: tutto pronto e arredato, come al solito all’avanguardia, 150 persone assunte solo per cominciare. La sanità romana scoppiava, mancavano tecnologie e servizi essenziali: ma tutto per qualche ragione rimaneva bloccato e il San Raffaele era fermo al palo. Nella palude romana erano cominciati movimenti a pelo d’acqua: Berlinguer da una parte cercava di sbattersi, ma dall’altra c’era la Regione guidata da Piero Badaloni (Ppi) che non firmava le convenzioni. «Un giorno», ha raccontato Don Verzé, «ero in Parlamento e stavo parlando con Berlinguer quando passa Rosy Bindi, la ministra della Sanità. Berlinguer la chiama: vieni, c’è Don Verzé. Lei non si ferma neppure, e accelerando sibila: non sono affari miei. Neppure un saluto». Il sacerdote ha raccontato anche di telefonate varie – come una di Cesare Geronzi, allora patron della Banca di Roma – per avvertirlo che la Bindi e una parte del Vaticano volevano cacciarlo dalla Capitale. Sinché il presidente del San Raffaele venne convocato appunto dalla Bindi. Lo racconta lui stesso in «Pelle per pelle», scritto con Giorgio Gandola: «L’appuntamento è per le cinque di pomeriggio. Arrivo e aspetto. Le sei, le sette, le otto. Alle nove ecco la Bindi. Si presenta e mi dice: “Lei deve andare via da Roma”. Sei parole. Io le rispondo che il San Raffaele però resta dov’è. Allora lei: “E’ la più bella struttura del Paese, ma lei lo deve vendere a me, al mio Ministero”». Seguì battibecco. Dopodiché, nell’arco di sole quarant’ott’ore, secondo il racconto di Don Verzé, qualche banca che finanziava il San Raffaele cominciò a fare strani discorsi. Nel caso della mancata vendita, si cominciò a paventare persino la possibilità di un commissariamento per l’ospedale di Milano. Anche Giovanni Bazoli, d’un tratto, consigliò di vendere. Geronzi fu più preciso: «A Roma non vogliono il nome San Raffaele e la sua gestione. La struttura piace molto, ma lei deve lasciarla e tornare a Milano».



    Cadde il governo Prodi ma non cambiò nulla: perché il neo premier, Massimo D’Alema, riconfermò la Bindi alla Sanità. Don Verzé si arrese progressivamente. E d’un tratto, dopo averlo lasciato languire per un paio d’anni, lo Stato predispose una perizia dell’ospedale in fretta e furia: non l’affidò all’Ufficio tecnico erariale, ma a un privato, tutto per fare in frettissima. Le elezioni regionali erano alle porte (Badaloni sarà sbaragliato da Francesco Storace) e fatto sta che la valutazione fu di 201 miliardi, col dettaglio che Don Verzé ne aveva spesi 350. Si rivolse allora alle migliori società mondiali del settore – Richard Ellis e American Appraisal – che stimarono l’ospedale rispettivamente 340 e 330 miliardi. Ma la Bindi non volle saperne: 201 miliardi o niente, mentre le pressioni bancarie aumentavano e la prospettiva era che 150 persone venissero mandate a casa. Morale: il sacerdote firmò un preaccordo per la predetta cifra, 201 miliardi. In attesa del contratto definitivo e subito dopo il preliminare – siglato ufficialmente con l’Ifo, Istituti fisioterapici ospedalieri, cioè il Regina Elena e il San Gallicano – spuntò tuttavia un’offerta della famiglia Angelucci, nome importante della sanità romana e proprietaria di Libero: offriva 270 miliardi per l’ospedale più alcune case e terreni sull’Appia Antica. Facevano 69 miliardi in più. Don Verzé accettò anche se poi, con accordo extragiudiziale, il cdr del San Raffaele dovette sborsare sette miliardi per aver stracciato il preliminare con lo Stato. Uno Stato, inteso come Rosy Bindi e ministero della Sanità, che pochi mesi dopo fece comprendere quanto fosse personale l’astio rivolto verso il sacerdote: acquistò a sua volta il San Raffaele dagli Angelucci ma per 320 miliardi, non 201. Una plusvalenza secca di 50 miliardi. Fa niente: due giorni prima delle elezioni regionali, svariate personalità diessine (Piero Badaloni, Lionello Cosentino e la solita Bindi) poterono annunciare trionfalmente: «Finalmente si apre al pubblico una struttura sanitaria che era bloccata da tempo». Vero. Bloccata da loro.



    Don Verzé ebbe un primo infarto il 2 luglio 1989 e poi un secondo il 16 agosto 1997, con successivi episodi minori e un’altra serissima crisi cardiaca il 22 dicembre 2010, quando già si pensava che sarebbe morto. L’episodio definitivo è quanto di più normale fosse lecito aspettarsi, e, se non fosse che da noi si urla al complotto ogni volta che muore una personalità finanziaria (anche se ha 91 anni) potrebbe dirsi che un complotto ci sia stato davvero: ma della divina provvidenza. Infatti Don Verzé, secondo una certa ottica, ha fatto benissimo a morire. Il suo Raffaele, negli ultimi tre anni, si era gonfiato di debiti che in misura minore aveva sempre avuto: 300 milioni con le banche (Intesa Sanpaolo e Unicredit in primis) e 5-600 milioni verso i fornitori dell’ospedale: fanno più di un miliardo rispetto al quale gli asset «non core» (che alla fine sono un albergo in Sardegna, delle piantagioni ortofrutticole e un aereo) sono poca cosa ma sono diventati i pilastri di una grandeur da gettare in pasto ai giornali. Sopraffatto da una crisi finale di liquidità, Don Verzé è morto prima che ai vertici del suo ospedale potesse sedere definitivamente quel potere – il Vaticano – che lo aveva osteggiato per tutta la vita. La Santa sede si è presa subito la maggioranza del consiglio di amministrazione (come auspicato dallo stesso Don Verzé) e del vecchio consiglio era rimasto solo lui, l’uomo che per una vita intera non aveva mai voluto religiosi nel cda; estromesso dunque anche Mario Cal, membro storico, altro outsider che partì come direttore di una squadra di ciclismo (quella di Beppe Saronni) e che si è suicidato il 18 luglio scorso per essere definito il giorno dopo, indovinate da quale giornale, «un altro tragico segno del disfacimento del sistema di potere berlusconiano». Le aperture di Don Verzé al nemico storico hanno consentito di escludere il fallimento e la bancarotta, mentre per assistere alla qualsiasi lotta di potere di chi ora vuole impossessarsi della sua creatura – lotta tra Giuseppe Rotelli, lo Ior, il gruppo Humanitas, chissà chi altri – restare vivi non era necessario.



    Ci sono centinaia di migliaia di persone, guarite nei suoi ospedali, che ringraziano comunque. Il San Raffaele non è più quello di una volta, l’abbiamo scritto, ma proseguirà come un figlio che succede al padre. E i figli non sono mai tuoi, appartengono al mondo. Al limite, per un po’, a Rotelli. Don Luigi Verzé fa, altri distruggono, ma noi intanto ci curiamo. Conta questo. Il 20 marzo 2010, quando compì novant’anni, disse che stava lavorando per assicurare la vita fino a 120 anni. Ma parlava del San Raffaele. Del resto era la sua vita.