sabato 30 giugno 2012

O.P. omelie domenicane: 12^ domenica, SS.Pietro e Paolo, sabato 12.a sett, 13^ domenica




13ª dom. ord., B, ’12 – domenica della solidarietà


Gesù guarisce, anzi risuscita, una ragazzina, e cura una donna affetta, da molti anni, di continue emorragie. Il Signore ci guarisce prendendo su di sé le nostre infermità, addossandosi le nostre malattie, come dice il profeta Isaia. Gesù si è addossato anche i nostri peccati, portando le conseguenze del male che abbiamo causato noi, a noi e agli altri, con le nostre azioni. Chiediamo perdono, al Signore e gli uni agli altri, per il fatto di farci male a vicenda.

Due cose grandi ci dice la sacra Scrittura. Primo che le malattie e la morte non vengono da Dio: Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, fossero pure animali. Egli ha creato tutte le cose perché esistano. Secondo, che tutte le cose sono buone in se stesse, anche le zanzare e i virus, anche se poi ci pungono e ci causano male. Certo, uno può dire che le malattie appartengono per natura alle cose materiali: la materia infatti si deteriora, muore. Anche le pietre, anche le montagne, si deteriorano e crollano. Ma il discorso qui riguarda in particolare l’uomo, del quale si dice: Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, avendoci fatti a sua immagine. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, cioè per il peccato, per essersi, l’uomo, non più fidato di Dio, di essersi fidato di più del demonio, ricadendo nella propria materialità.

Affermazione forti, queste, in positivo e in negativo. In positivo, riguardo alla bontà delle cose e della vita e delle intenzioni di Dio verso di noi. In negativo, perché ci pongono davanti le nostre responsabilità: noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere. Ognuno è fabbro, artefice, della propria vita. Certamente non solo in senso individuale, ma soprattutto in senso collettivo. Guardiamo al grande problema ecologico, dell’equilibrio di natura. Anche le situazioni di crisi che stiamo attraversando sono frutto dell’uomo, e ne fanno le spese anche persone innocenti. Ma tutti abbiamo qualcosa di cui rimproverarci: la società, come una comunità, è il frutto del comportamento di ciascuno di noi. Certo i terremoti, e la morte, non dipendono da noi (almeno pensiamo), ma il modo di reagire e di essere solidali nei terremoti, questo sì. Così è anche per quanto riguarda il curare o anche solo portare sollievo ai malati, agli anziani, ai bambini rimasti orfani, per morte o per separazione dei genitori. Certo non serve, e non ci tira su, colpevolizzarci a vicenda, rendendo le nostre relazioni ancora più difficili.

San Paolo nella 2ª lettura, ci suggerisce la via della condivisione, della solidarietà. Lo fa parlando di situazioni concrete di disagio economico di alcuni fratelli nella fede, ai quali invita a venire incontro, ognuno secondo le proprie possibilità e disponibilità. Non si tratta di diventare poveri noi per fare ricchi gli altri. Si tratta di fare la pari, di dividere il nostro pane con chi non ne ha, i vestiti con chi non ne ha. Possiamo anche aggiungere: dividere la casa con chi non ne ha. Un problema anche per i nostri conventi mezzi vuoti, cosa farne. Certo anche questa solidarietà è da intendere in senso ragionevole, non in assoluto, perché ognuno, anche chi è in necessità, deve fare la propria parte e rimboccarsi le maniche per quello che può; non si può vivere unicamente di assistenzialismo, non è giusto. Ma quanto è difficile, anche in questo campo, essere giusti, nelle nostre azioni ma soprattutto nei nostri giudizi.

Certo san Paolo porta un esempio che ci inchioda: Cristo da ricco che era si è fatto povero, perché noi diventassimo ricchi per mezzo del suo farsi povero per noi. Sinceramente, restiamo senza parole. C’è quel grande inno al cap. 2° della Lettera ai Filippesi: abbiate in voi i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo Dio, spogliò se stesso, rinunciò alle sue prerogative divine, divenendo un uomo, umiliandosi fino a farsi nostro servo, abbassandosi, annientandosi, fino alla morte e alla morte di croce. Quando canto queste parole da un lato mi vergogno di me stesso, dall’altra canto di gratitudine al mio salvatore e Signore. Fin qui vi ho amati, egli ci dice. Noi, fin dove sappiamo arrivare?

Chiediamo al Signore che dica anche su di noi quelle belle parole: Talità, Kum. Alzati. E riprendiamo a camminare.



Sabato 12ª sett., ‘12

Dopo la memoria di ieri, dei santi Pietro e Paolo, oggi si ricordano tutti i primi martiri romani. Pietro e Paolo non furono gli unici, e nemmeno i primi, a testimoniare con la loro vita la loro fede e la loro fedeltà a Cristo. Molti morirono prima e con loro, e dopo di loro.

I martiri che ricordiamo oggi si riferiscono in particolare all’epoca di Nerone, intorno all’anno 64 dopo Cristo quando l’imperatore, per costruire una città più bella, diede ordine di dare fuoco alla vecchia città, dando poi la colpa ai cristiani, come dice lo storico Tacito, aizzando così la gente contro di loro. Molti furono crocifissi e, cosparsi di pece, bruciati vivi nei giardini di Nerone. La comunità romana, dopo la breve persecuzione di Gerusalemme dove morirono Giacomo e Stefano, fu la prima a subire persecuzione così estesa. Non conosciamo il numero di questi martiri: fu tutta una comunità tenuta in scacco, variamente perseguitata, e uccisa nei suoi migliori testimoni. Da Nerone in poi, anche in seguito, a più riprese, i cristiani furono perseguitati, dentro e fuori Roma, fin dopo Costantino, quindi per quasi 300 anni.

Bene si applicano a questa situazione della chiesa di Cristo, le Lamentazioni del profeta Geremia sulla sorte di Gerusalemme, occupata e distrutta dagli assiro-babilonesi, con i suoi abitanti spogliati di tutto e deportati. Abbiamo ascoltato un passo del cap. 2. Facciamo nostro l’esortazione del profeta: grida dal tuo cuore al Signore, fa scorrere le tue lacrime giorno e notte, non darti pace, effondi coma acqua il tuo cuore davanti al Signore, alza verso di lui le mani per la vita dei tuoi bambini che muoiono di fame all’angolo di ogni strada. Queste parola fanno ricordare anche la situazione di tanti popoli ridotti alla fame, di tante comunità ancora attualmente martirizzate e Africa e non solo.

Ci sorregga il racconto evangelico: verrò e lo curerò, dice il Signore. Ma sia nostra supplica l’umile preghiera di quel centurione: Signore non sono degno; ma se tu vuoi, è sufficiente una tua parola. Sulla croce egli prese su di sé le nostre infermità, si è addossato le nostre malattie. Così egli ci ha liberato, tracciandoci una strada di come e cosa fare anche noi per i nostri fratelli.



 
Ss. Pietro e Paolo

Festa dei santi Pietro e Paolo. Preghiamo per il papa e tutti i missionari. Il Signore Gesù aiuti anche noi nella fedeltà a lui. Chiediamo perdono delle nostre infedeltà e pigrizie.
La liturgia e anche l’iconografia antica ricordano insieme questi due apostoli, due colonne della chiesa, il primo come pastore della Chiesa delle origini nella sua prima esperienza di vita ed espansione missionaria; il secondo come evangelizzatore e fondatore di chiese nell’Asia minore, e in Grecia. Ambedue morirono martiri a Roma in due modi e due luoghi diversi, il primo in croce, il secondo con la decapitazione; nel cimitero Vaticano uno, fuori città l’altro, e furono sepolti nelle rispettive basiliche che sorsero sulle loro tombe: san Pietro sul Vaticano, san Paolo fuori le mura.

Le due prime letture bibliche si riferiscono: la prima alla prigionia di Pietro a Gerusalemme, la seconda alla esperienza spirituale di san Paolo che nella sua seconda lettera a Timoteo riassume in poche parole la sua vita. Il primo liberato e sorretto dall’angelo di Dio, il secondo, già anziano, che traccia come un suo testamento, che vorrei fosse anche il mio e di tutti voi: è giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede… Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza per la mia missione, il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno. Facciamo nostra questa professione di fede.

Il testo evangelico mette in evidenza la missione di Pietro (e del papa), che è quella di confermare nella fede i propri fratelli e fare da riferimento visibile per l’unità dei cristiani. L’allusione alle chiavi è quella al maggiordomo, al responsabile della casa. Delicata missione del papa.

Pietro e Paolo, e lo ascolteremo nella preghiera del prefazio, rappresentano due modi di essere nella chiesa e servire Cristo. Con doni diversi hanno edificato l’unica chiesa. Più pastore il primo, più teologo il secondo, il primo come padre delle comunità costituite, il secondo come fondatore di chiese tra i pagani. Due impegni che devono caratterizzare anche la nostra vita: costruire la comunità, ma con uno sguardo ampio all’azione missionaria presso tutti i popoli. Il Signore ci accompagni nella fedeltà a lui.




12ª dom. ord., B, ’12 – domenica di Giovanni Battista


La coincidenza della domenica con la festa di san Giovanni Battista, fa sì che oggi l’attenzione si porti a colui che fu il profeta incaricato da Dio a preparare gli animi e presentare poi al popolo ebraico Gesù di Nazaret come il messia atteso. Giovanni ha fatto da staffetta (pròdromos) che precede l’arrivo del personaggio. È questo un grande onore che la Chiesa intende riservare al profeta, per il posto particolare che egli occupa nei confronti di Gesù.

Il Signore perdoni i nostri peccati, per celebrare con frutto questa eucaristia.

Per la festa odierna di Giovanni Battista abbiamo interrotto le letture consuete delle domeniche, per concentrarci su testi che si riferiscono in modo specifico alla figura e alla missione di questo profeta. È una festa tutta particolare che gli viene riservata, ricordandolo non solo nel momento della morte, come tutti i santi, ma anche nella data della sua nascita terrena, come Gesù (Natale) e Maria ss.ma (8 settembre). La memoria di questo santo è stata fissata a tavolino, sei mesi prima del natale di Gesù. Di Giovanni si fa memoria poi anche nel giorno del suo martirio, il 29 agosto, data nella quale presumibilmente gli fu dedicata una chiesa, dopo che la sua tomba, in Samaria, venne profanata, e le sue reliquie bruciate e disperse, nel 362 d.C.

Tutti gli evangelisti e gli Atti degli apostoli parlano di lui. Nel Vangelo della vigilia si parlava della promessa della nascita di Giovanni, mentre nel vangelo di oggi è stata descritta la sua nascita: che ne sarà di questo bambino, diceva la gente, e la mano del Signore era con lui. Opportunamente come prima lettura della vigilia, è stato scelto un testo del profeta Geremia: Prima di formarti nel seno materno ti ho conosciuto, prima che venissi alla luce ti ho consacrato. Il tema è stato ripreso anche nella prima lettura di oggi, stavolta con le parole di Isaia, dove si parla del servitore fedele di Dio: Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. Bene si applicano a Giovanni queste parole. Ma penso che si applichino bene anche a ciascuno di noi. Dio ci ha pensati da prima ancora della nascita. Anche i nostri genitori pensavano a noi da prima ancora che nascessimo, mentre eravamo nel seno della mamma, ma noi siamo nel pensiero di Dio prima ancora che venissimo pensati dai nostri genitori e concepiti. Da allora siamo come degli uccellini appena nati nelle mani trepidanti di Dio. E anche a noi Dio dice: non temere, io sarò con te, tu parlerai in mio nome. Molto domenicana questa festa. Ma chiaramente si applica a tutti, anche ai non domenicani. Dobbiamo riflettere su questo nostro essere pensati e consacrati dal Signore, con una missione da svolgere. Non dimentichiamolo mai, pur in mezzo alle nostre difficoltà quotidiane, alle quali necessariamente dobbiamo far fronte. Non perdiamo mai di vista ciò che Dio ha fatto di noi e cosa si aspetta che noi facciamo, nelle situazioni concrete delle vita. È proprio nelle situazioni concrete che dobbiamo vivere questa nostra vocazione e consacrazione.

San Paolo, nel suo discorso nella sinagoga di Antiochia, parlando di Gesù accenna al profeta Giovanni il quale aveva una chiara coscienza della sua missione: non era lui il profeta, egli aveva soltanto il compito di richiamare tutti a cambiare vita, per accogliere degnamente l’inviato di Dio. Gli scritti del Nuovo Testamento parlano chiaramente di Giovanni come predicatore e battezzatore, ma anche per precisare meglio la sua missione nei confronti di Gesù. Perché effettivamente attorno a Giovanni si era costituita una grande corrente di spiritualità, molti erano diventati suoi discepoli, e godeva della simpatia e credibilità presso tutto il popolo, che lo riteneva veramente un uomo di Dio, un profeta coraggioso anche di fronte ai potenti. Gesù ha un bellissimo elogio di lui: nessuno tra i nati di donna è stato grande come lui. Ma poi alcuni erano rimasti fissati su di lui fino a non accettare Gesù, ed era un controsenso. È soprattutto l’apostolo Giovanni, che ha scritto molto tardi il suo vangelo, che affronta queste problematiche del rapporto tra il profeta e Gesù, tra i discepoli del Battista e i discepoli di Gesù. Ricordate le parole del prologo al vangelo di Giovanni: venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni, egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, e preparare un popolo ben disposto. Non era lui la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce, indicare la luce vera che illumina ogni uomo.

Anche la nostra missione è questa. Non siamo noi al centro dell’attenzione, non dobbiamo mettere noi stessi al centro, ma il Signore, fossimo pure molto bravi e radicalmente evangelici nei nostri costumi. Se uno si mettesse al centro e si ritenesse lui il salvatore e non Gesù, sarebbe totalmente fuori e deviante dalla verità È la storia anche di oggi: quanti in pratica si ritengono superiori a Gesù, e vogliono giudicare da soli ciò che vale e ciò non vale. È la storia anche di quanti vogliono vivere fuori della famiglia di Gesù, che è la chiesa, la quale, pur non essendo ancora tutta santa, non dimeno è il suo corpo, dove egli abita e dove lo Spirito santo tiene viva la verità tutta intera, e dona la sua grazia.

Il Signore ci salvi dalla presunzione di sentirci i migliori di tutti, depositari di tutta la scienza e di tutta la santità. Sia nostra umile preghiera quotidiana il salmo 138, che abbiamo cantato, che inquadra bene la nostra esistenza: sono opera delle mani del Signore, egli ha fatto di me una meraviglia stupenda.

Don Giulio: domenica 1 luglio 2012




Buona domenica

don Giulio



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VANGELO DI RIFERIMENTO



Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva,

gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne

uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide,

gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia

figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e

viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva

intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e

aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi

averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare

di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva

infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò

salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo

corpo che era guarita dal male.

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui,

si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi

discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e

dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei

che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò

che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la

verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in

pace e sii guarita dal tuo male».

Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga

vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il

Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della

sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno

di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di

Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide

trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro:

«Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo

deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la

madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la

bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che

significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si

alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da

grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a

saperlo e disse di darle da mangiare.





RIFLESSIONE



1 luglio 2012



IL DI PIÙ

13ma domenica del tempo ordinario





Due personaggi abitano il Vangelo di oggi.

Un augurio di Oriana Fallaci ne può tratteggiare il ritratto:

"La vita ha 4 dimensioni: amare, soffrire, lottare, vincere.

Chi ama soffre, chi soffre lotta, chi lotta vince.

Ama molto, soffri poco, lotta tanto, vinci sempre".



La prima protagonista è una donna con una grave emorragia.

Dietro e dentro questa donna c’è ogni storia di dissanguamento,

ci sono tutte quelle ferite aperte che “svuotano” la vita,

che indeboliscono le forze, che “ti succhiano il sangue”.

Serve una trasfusione di vita.



Il secondo quadro è una scena di buio, è la fine della speranza:

“lascia perdere, tua figlia è morta”.

Dietro e dentro questo uomo c’è ogni storia di fallimento,

di disperazione, c’è ogni “mi arrendo, non ce la faccio più”.

Serve una trasfusione di fiducia.



Due persone che soffrono e lottano per un incontro toccante,

per un tocco vitale di energia, per una carezza vincente di vita.



Ogni domenica noi abbiamo il loro stesso incontro con Gesù:

ma come viviamo e come cerchiamo questo tocco?

Crediamo davvero che cambi qualcosa nella nostra vita?



È ora di chiederci, per una volta, ma cosa vado a Messa a fare?



A Messa ci sono quelli che ci vanno perché "si deve".

Non cantano né rispondono, ma captano tutti gli ultimi gossip.

Non si accorgono di cosa si fa, ma scannerizzano tutti i presenti.

Prendono sempre la benedizione sulla schiena

perché al “Vi benedica” sono già girati in fuga verso la porta.

Per questi celebrare la Messa in latino o in cinese è la stessa cosa,

basta che non sia lunga.



A Messa ci sono poi quelli tutti casa e chiesa, ma ciò che li frega

è la strada, cioè ciò che fanno o dicono dalla casa alla chiesa.

Sono quelli che si abbuffano di comunioni, candele, santini

come se fossero caramelline, ma non vivono una riga di Vangelo.

Alcuni stanno a Messa per soddisfare un loro bisogno

di socializzazione, di riconoscimento, di valorizzazione.

Altri in realtà sono solo superstiziosi, travestiti da cattolici:

convinti che Dio conviene tenerselo buono perché non si sa mai.



A Messa ci vanno infine quelli che cercano un oltre, con la fatica

di credere e sperare (che è la stessa fatica di vivere e di amare).

Si cerca un tocco, una scossa, uno spintone di vita e per la vita,

comunque e nonostante tutto. La trasfusione di vita e di fiducia.



Come la donna del Vangelo di oggi ci si sente stranieri, lontani

ma si va a tentoni, si fanno domande, ci si mette in questione.

Come l’uomo del Vangelo si sa come è nera e cruda la realtà,

ma si lotta per aggrapparsi a un Oltre. Non ci si arrende.



Per questo la fede richiede non un’accettazione, ma un’adesione.

Non chiede un “obbedisco”, ma un “mi coinvolgo”.

Sta a noi decidere se scegliere l'oltre di un incontro toccante

o la pallida mediocrità di una routine.

È meglio la sicurezza rigida della incasellata normalità di sempre

o l’apertura ubriacante di orizzonti nuovi e sconfinati?



"Mai nulla di splendido è stato realizzato

se non da chi ha osato credere che dentro di sé

ci fosse qualcosa di più grande delle circostanze" (Bruce Barton).



Questo è ciò che Dio ci sussurra ogni domenica: il "di più".

Quel "di più" che Dio ha vissuto su di sé incarnandolo:

chi ama soffre, chi soffre lotta, chi lotta vince.

Vince anche la morte e ogni tipo di morte.



domenica 24 giugno 2012

Don Giulio: 24 giugno 2012




Buona domenica

don Giulio



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VANGELO



Dal Vangelo secondo Luca

Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio.

I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei

la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni

dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il

nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà

Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si

chiami con questo nome».

Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse.

Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti

furono meravigliati. All’istante si aprirono la sua bocca e la sua

lingua, e parlava benedicendo Dio.

Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione

montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro

che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai

questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui. Il

bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni

deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.







RIFLESSIONE



24 giugno 2012



TOGLIERSI I SASSOLINI DALLE SCARPE

Festa di San Giovanni Battista





È raro che il 24 giugno cada in domenica e quando succede

la festa della nascita di San Giovanni Battista prevale.

Per di più è l'unico santo che ha due date nel calendario liturgico:

di lui si celebra sia la nascita che la morte.

Di solito dei Santi si celebra la morte come "nascita al

cielo".



È un santo particolare anche solo perché muore prima di Cristo,

quindi potremmo dire che "non è mai stato cattolico".

Non è mai andato a Messa (non c'era ancora)

eppure è il santo a cui sono dedicate più chiese nel mondo.

Ventitre papi presero il suo nome. L'ultimo Giovanni XXIII.



Anche i nomi delle note musicali (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si)

hanno a che vedere con Giovanni Batista:

sono desunte dalla prima sillaba dei sette versi della prima strofa

dell'inno liturgico composto in onore di questa festa.



Perché la data del 24 giugno per stabilire la sua nascita?

Nell'annunciare la nascita di Cristo a Maria l'angelo le dice

che sua cugina Elisabetta (madre di Giovanni) è al sesto mese.

Dunque si sceglie il 24 giugno: 6 mesi prima di Natale.

Naturalmente questa data ha valore simbolico e non storico.



Il nocciolo del mistero sta, come abbiamo sentito nel Vangelo,

nel nome: "Giovanni" che in ebraico significa "dono di

Dio".

Letteralmente: Dio ci ha fatto grazia, ci ha fatto un regalo.

Se un padre non dava il nome, il neonato veniva ucciso.



Il nome è la parola che un genitore mette indelebile sul figlio

e lo fa esistere non come "un uomo" ma come

"persona",

come identità: io sono "Giulio".

Da quel momento si affaccerà e presenterà sempre così alla vita.

È una seconda generazione: la prima è fisica, la seconda è vitale.

Dare il nome è un gesto d'amore intimo. È un gesto di creazione.



Tant'è vero che solo l'amore può cambiare il tuo nome,

solo l'amore plasma "nomignoli" che contengono una storia,

solo l'amore crea una nuova identità legata ad una storia di vita.



C'è quel verso amaro di Pierre Louys in Afrodite:

"Le donne non hanno più alcun nome nelle braccia degli

amanti".

O quella di Joe Namath:

"Fino a 13 anni pensavo che il mio nome fosse Zitto-tu".



Dio è più attento alla nostra felicità che alla nostra fedeltà.

A lui interessa la nostra realizzazione,

come Giovanni ha compiuto la sua vita come "Battista"

cioè come colui che ha saputo intuire la presenza di Dio.



Si racconta che quando fu consegnata al Papa Giulio II

la possente statua del Mosè di Michelangelo,

il Papa restò meravigliato e stupito della bellezza.

Lo stesso artista, finendola, le scagliò contro un martello

gridando "parla!", tanto sembrava perfetta.

Il Papa chiese a Michelangelo come avesse fatto

e il geniale artista rispose: “È stato semplice:

ho preso un blocco di marmo

e ho tolto via tutto ciò che non era Mosé”.



Oggi pensiamo al nostro nome, quindi al nostro essere.

Pensiamo a tutto ciò che non è "Mosé", che non è

"Giulio",

a tutto ciò che ci rende diversi dal capolavoro

che è il modo con cui Dio sogna ciascuno di noi.



Dio vuole liberarci da tutto ciò che non è noi stessi

e ridarci quella Libertà che è la pienezza della vita.

Dio vuole liberarci dalle zavorre che ci imprigionano.



Non sono le montagne a bloccare gli uomini che le scalano,

ma i sassolini nelle loro scarpe.



Il Vangelo oggi ci chiede di toglierci i sassolini dalle scarpe

per arrivare ad essere quel "Giovanni", quel "dono di

grazia",

quel "Mosè", cioè quell'opera d'arte che chiede di

essere liberata.

Riscopriamo la dignità del nostro nome di Battesimo.



C'è chi ci vede macigno e chi ci vede opera d'arte.

È la differenza tra lo sguardo opportunista e gli occhi dell'amore.

Chi ti usa ti imprigiona. Chi ti ama ti libera.

Chi ti usa vuole che tu sia come dice lui,

chi ti ama vuole che tu sia pienamente te stesso.

Dio ama così.

Impariamo anche noi ad amarci, ad amare e a farci amare così.

domenica 17 giugno 2012

Don Giulio: domenica 17 giugno 2012




Buona domenica

don Giulio



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VANGELO DI RIFERIMENTO



Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come

un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di

giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il

terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il

chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli

manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa

possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo

descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato

sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno;

ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le

piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo

possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso

genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza

parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava

ogni cosa.





RIFLESSIONE



17 giugno 2012



PER FARE UN TAVOLO CI VUOLE UN FIORE

11ma domenica del tempo ordinario





Sergio Endrigo con un testo di Gianni Rodari cantava:

"Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole

l'albero,

per fare l'albero ci vuole il seme, per fare il seme ci vuole il

frutto,

per fare il frutto ci vuole un fiore, ci vuole un fiore,

per fare un tavolo ci vuole un fio-o-re".



Se questa strofa viene a memoria a tutti, pochi conoscono la frase che

la precede:

"Le cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare ed

ascoltare".



Ci è scontato affermare che per fare un tavolo ci vuole il legno

ed ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero

e che per fare l’albero ci vuole il seme.

Fin da bambini sappiamo dalla scienza che per fare il seme ci vuole il

fiore.

Ma noi grandi non abbiamo più il coraggio di tirare la conclusione

che per fare un tavolo ci vuole un fiore. E lo lasciamo dire solo ai

poeti.



Facevo questa riflessione guardando un manifesto che ho visto in

Bergamo alta,

dove un negozio ha usato come provocante pubblicità un testo di Albert

Einstein.

Nessuna immagine, un semplice fondo bianco, con queste parole in nero:



"Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello

stesso modo.

La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi paesi

perché è proprio la crisi a portare il progresso.

La creatività nasce dall'ansia, come il giorno nasce dalla notte

oscura.

È nella crisi che nasce l'inventiva, le scoperte e le grandi

strategie.

Chi supera la crisi supera se stesso, senza essere superato.

Chi attribuisce le sue sconfitte e i suoi errori alla crisi,

violenta il proprio talento e rispetta più i problemi che le soluzioni.

La vera crisi è la crisi dell'incompetenza.

Lo sbaglio delle persone e dei paesi è la pigrizia nel trovare

soluzioni.

Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine, è una

lenta agonia.

Senza crisi non ci sono meriti.

È nella crisi che il meglio di ognuno di noi affiora

perché senza crisi qualsiasi vento è una carezza.

Parlare di crisi è creare movimento;

adagiarsi su di essa vuol dire esaltare il conformismo.

Invece di questo, lavoriamo duro.

L'unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per

superarla”.



Einstein credeva davvero che "per fare un tavolo ci vuole un

fiore".



Ed è esattamente quello che Gesù ci suggerisce in questa pagina di

Vangelo

parlandoci di giardinaggio nelle "parabole della crescita".



Dio sa trasformare la spazzatura del nostro passato in concime

perché sbocci il fiore di un sogno futuro.



Il vero successo, in ogni caso e in tutti i campi, inizia con una serie

di fallimenti,

attraversa frustrazioni e deve accettare incomprensioni e preconcetti,

trova trappole.

Perciò richiede costanza, tenacia, coraggio delle proprie idee, fiducia

nei sogni,

e testarda persistenza nella tentazione di voler abbandonare.

Quando però il traguardo dell'obiettivo si fa vedere

all'orizzonte, c'è lo stupore

di vedere il frondoso albero, non solo con frutti ma ricco di vita per

i nidi.

Devi allora ricordarti che quell'albero era un insignificante

granellino.



Quante volte il fiore sbocciato di un minuscolo sogno,

proprio perché ci abbiamo creduto davvero, di notte e di giorno,

è diventato tavolo da cucina per la condivisione della quotidianità,

è diventato tavolo da lavoro su cui poggiare i nostri progetti e i

nostri risultati

è diventato tavolo da salotto attorno a cui accogliere le persone che

ami.

Così è nelle storie d'amore e di amicizia, così è nelle imprese di

lavoro,

così fa Dio con noi: prende un puntino di bene nel campo arido della

nostra realtà

(un nulla: il granello di senapa è grande come la capocchia di uno

spillo)

e lo lavora con premura per farlo fiorire e trasformarlo in tavolo,

anzi in altare.



Quello che Gesù ha detto con l'immagine dell'albero

Nietzsche lo diceva in termini più psicologici:

chi ha un “perché” abbastanza forte può superare qualsiasi “come”.



Le cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare ed

ascoltare.

E il segreto è questo: per fare un tavolo ci vuole un fiore.









domenica 10 giugno 2012

Don Giulio: domenica 10 giugno 2012




Buona domenica

don Giulio



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VANGELO DI RIFERIMENTO



Dal Vangelo secondo Marco

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli

dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa

mangiare la Pasqua?».

Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e

vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove

entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia

stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.

Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già

pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati

in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e

lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese

un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse

loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti.

In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino

al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato

l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.





RIFLESSIONE



10 giugno 2012



MANO NELLA MANO

Solennità del Corpus Domini



"Di persone indispensabili sono pieni i cimiteri".

Spesso mi ripeteva così, in modo saggiamente cinico un anziano Cardinale

di fronte al mio giovanile piglio di suggerire alcune presenze

"indispensabili".

Il Corpo di Cristo nell'Eucarestia, di cui oggi celebriamo la

festa, Corpus Domini,

ci insegna invece che siamo mendicanti di essenzialità per questo nel

fare

la comunione veniamo imboccati o facciamo il bellissimo gesto di

tendere le mani.



Una mano, quella sopra, dice che io non sono indispensabile, ma sono

mendicante

di senso, di vita, di serenità, di gioia, di amore, di tranquillità. Ho

fame. Ho bisogno.

L'altra mano, che sorregge, dice che comunque ho delle potenzialità

e ricchezze

per cui posso "dare una mano". Non ho tutto, ma qualcosa di

bello ce l'ho.

Accolgo il pane santo nella mano vuota del mendicante,

ma è la mano della libertà e delle qualità, che sta sotto, che prende

il Corpo di Cristo

e mi sazia perché quel pane diventi forza di vita.



Questi due sentimenti, umiltà e disponibilità, sono i 2 colori da dare

alle nostre mani

nel gesto che facciamo quando riceviamo il Corpo di Cristo nella

comunione.

Una mano sopra l'altra, perché il Corpo di Cristo lo si riceve. Non

lo si prende.

Non ci si serve. Non mi viene portato. Mi devo mettere in fila. Chiede

attesa.

Mi viene consegnato personalmente: è troppo prezioso.

Mani vuote: non c'è scambio. Non do nulla in cambio. Non potrei mai

"comprarlo".

Non ne sono degno, per questo posso anche farmi "imboccare".

Qualsiasi cosa faccia per la chiesa e il mondo, quel tozzo di pane non

me lo merito.



È comune usare il termine "adorazione del Santissimo".

“Adorare” deriva dal latino “ad os” e significa “mettere alla bocca”.

Da una parte è il sentimento con cui davanti a qualcosa di

straordinario,

pieno di stupore, meravigliato metti la mano alla bocca e non hai

parole.

Dall'altro è il sentimento della bellezza che dice: "ti

mangerei" (magari di baci).



È il senso del termine greco "Eucaristia" che significa

"rendere grazie".



Un dono da accogliere, un segno d'amore, anzi per Dio è un pegno

d'amore.

Quante persone invece si credono padri eterni più di Dio, vantando

meriti.

Non è una ricompensa che mi sono meritato o un premio acquistato con i

bollini.

Che squallore! Come se Dio ci vedesse come cagnolini a cui dare il

biscottino

se si scodinzola bene o si riporta la pallina.



Ma ci rendiamo conto di cosa ha detto Gesù nell'ultima cena donando

l'Eucaristia?

"Questo è il mio corpo, te lo dono, lo offro per te".

Donare il corpo è il gesto d'amore più grande: dona il corpo

l'amato all'amata,

dona il suo corpo la madre al feto perché possa formarsi e nascere.



Dio usa questa forte espressione d'amore di coppia per dire la sua

presenza con noi.

Se io devo pagare un corpo che mi si dona, questa è prostituzione.

Se voglio prendere un corpo solo perché "mi va o me la

sento", questo è abuso.

Solo se è donazione totale, profonda, intima, gratuita è un gesto sacro

di vita.



Qualcuno nelle due mani unite vi vede un cuore sia per la forma che

disegnano,

sia perché ricordano le due parti del cuore con i movimenti di sistole

e diastole:

così il corpo di Cristo che entra e che viene preso dentro di noi

(sistole)

chiede di diventare linfa che irrora ogni capillare della nostra vita

(diastole).



Comunque le due mani sono da tenere all'altezza del cuore,

come se avessero bisogno di appoggiarsi sulla parte densa della nostra

vita.



Questo richiede che le mani e la bocca che ricevono il Corpo di Cristo

siano pulite.

Pulite per ricevere l'Eucaristia, non solo in senso igienico ma di

densità di vita.

Se sono superficiale con parole o gesti, mani e bocca, come posso

accogliere Dio?

Per questo la saggezza degli antichi ha suggerito almeno un'ora di

digiuno:

il non toccare qualcosa mi suggerisce l'importanza del dono che sto

per ricevere.

A Dio non interessa quello che ho nello stomaco, ma quello che ho nel

cuore.



Mani e labbra pulite sono però soprattutto la conseguenza della

comunione.

Mani pulite che lavorano e accarezzano, che costruiscono e incontrano,

non mani che colpiscono, strappano, rovinano, imbrattano, sprecano.

Bocca pulita e libera in parole, dialoghi, sorrisi e baci. Magari ci

preoccupassimo

dello splendore del frutto delle nostre labbra tanto quanto del bianco

dei denti.



Quelle nostre due mani, poggiate sul cuore, diventano allora il simbolo

della vita

che prende la forma di uno scrigno che chiede la delicatezza come per

un gioiello,

prende la forma di culla che chiede la premura come per un germoglio di

vita,

prende la forma di una teca da altare che chiede adorazione come per il

Santissimo.



Delicatezza, premura, sacralità sono le fondamenta di ogni rapporto

d'amore.

La superficialità sbava, la distrazione corrode, la mediocrità corrode.

Capricci, egoismi, superbia, rivendicazioni sono l'anti-comunione.



Dimmi come mangi e ti dirò chi sei. Dicono i dietologi.

Dimmi come fai la comunione e ti dirò che cristiano sei. Possiamo dire

oggi.

Facciamo la comunione e quindi come conseguenza cerchiamo comunione tra

noi

o mangiamo Cristo a tradimento?



Basta poco, basta guardare le nostre mani e renderci conto che Dio si

appoggia a noi

e sapremo dare allora la giusta misura alla nostra vita, al nostro

cuore, al nostro fare.

Ci troveremo, stupiti e meravigliati, a metterci la mano alla bocca,

per "adorare"

e per vivere camminando nel quotidiano mano nella mano con Dio.

domenica 3 giugno 2012

Don Giulio: domenica 3 giugno 2012






Buona domenica

don Giulio



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VANGELO DI RIFERIMENTO



Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che

Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però

dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni

potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i

popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito

Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed

ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».





RIFLESSIONE



3 giugno 2012



NON UN MURO MA UN ORIZZONTE

Solennità della Trinità





Oggi è la festa di Dio! Questo può sembrarci strano:

se Dio esiste, infatti, ogni giorno è la festa di Dio!

Dedicare un giorno al mistero di Dio, alla Trinità,

è ricordarci innanzitutto che ogni giorno bisogna ridiventare credenti

perché il mistero di Dio non è un muro ma un orizzonte.



Per questo, ogni anno, ripercorriamo la storia di Gesù:

la nascita a Betlemme, la predicazione, la croce,

la risurrezione, il suo ritorno al Padre, il dono dello Spirito.

Domenica scorsa abbiamo concluso questo ciclo

e oggi ci chiediamo: chi ci sta dietro a tutto questo?



È facile rispondere: Dio! Ma come lo si può scoprire Dio?



Madre Teresa di Calcutta amava raccontare un fatto:

un giorno un mussulmano guardava una delle sue suore

che fasciava con amore le piaghe di un lebbroso.

La suora non parlava, ma agiva raccolta e sorridente.

Quell’uomo islamico disse a Madre Teresa:

“Per tutti questi anni ho creduto che Gesù fosse solo un profeta

ma oggi capisco che è veramente Dio,

perché solo un Dio poteva mettere tanto amore nelle mani di questa

suora”!



Un’immagine forse ci può aiutare a metterci di fronte

al mistero dell’unità e della trinità di Dio: l’acqua!



L’acqua ci aiuta a pensare all’unità di Dio:

secondo la scienza tutto l’universo e anche il nostro corpo

è formato per almeno il 70% da acqua.



Così come siamo fatti di acqua, siamo “imbevuti” di Dio,

anche se non ce ne accorgiamo, né la vediamo.



È significativo il gesto per cui nel giorno del nostro Battesimo,

per diventare “figli di Dio” siamo stati immersi nell’acqua

nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.



Dire che “Dio è unità e trinità” è dire che Dio non può,

non riesce, non sopporta di stare solo, di stare isolato,

non riesce a stare sulle nuvole, ma ci coinvolge,

fa “piovere” il suo amore su di noi.



L’acqua ci può aiutare a riflettere sul mistero della Trinità,

se pensiamo a tre sue qualità, a tre sue funzioni:

l’acqua irriga, disseta, scava.



L’acqua IRRIGA, fa crescere, fa fiorire,

così il PADRE, ogni giorno, con noi lavora silenziosamente con amore

per far fiorire la nostra vita, rispettando le nostre stagioni.

È diversa la pioggia dell’inverno dai temporali dell’estate,

ma come la natura usa modi diversi per aiutare a crescere,

così fa Dio con la nostra vita, con premurosa delicatezza o con tuoni

che scuotono.



L’acqua DISSETA, così il FIGLIO con la sua Parola, con la sua verità,

disseta la nostra sete interiore di senso.

Come davanti ad una fonte,

la nostra sete non riuscirà a spegnere, ad esaurire la sorgente,

ma sempre la sorgente spegnerà la nostra sete.

Questo bere alla sorgente è la nostra spiritualità:

a volte ci basta un piccolo sorso, altre volte per la sete bruciante

necessitiamo di litri,

ma la fonte è sempre lì, disponibile ai nostri bisogni.



L’acqua SCAVA, gli antichi dicevano “gutta cavat lapidem”.

Diceva Ovidio: "Non c'è niente di più duro della pietra e di

più molle dell'acqua,

ma la molle acqua scava la dura pietra".

Una goccia può scavare anche il marmo, un ruscello scava una valle,

così lo SPIRITO agisce nella nostra vita in silenzio,

ma scavando a fondo nelle nostre più dure resistenze.



Lasciamoci immergere in quest’acqua nella quale siamo stati immersi nel

Battesimo,

quell’acqua che ci ha imbevuto di Dio Trinità,

lasciamo che Dio, il Padre, irrighi la nostra vita,

lasciamo che Dio, il Figlio, disseti il nostro cuore,

lasciamo che Dio, lo Spirito, scavi le nostre durezze.



Non facciamo come quei bambini che sulla spiaggia

preoccupati di cercare conchiglie o di costruire castelli

non si accorgono di avere davanti il mare.