domenica 6 maggio 2012

O.P. omelie domenicane 6 maggio 2012

5ª dom. di Pasqua, B, ’12 – domenica della vite e dei tralci


La fede nel Signore Gesù ci ha convocati qui per incontrarlo e ascoltare la sua parola. Dopo l’immagine del buon pastore, ascoltata domenica scorsa, in questa settimana Gesù ci offre un’altra immagine del nostro rapporto con lui, quella dei tralci con la loro vite. La vite, la vigna, sono due grandi immagini bibliche per parlare di Dio e di noi. Sentiamoci oggetto delle sue cure e chiediamogli di guarire il nostro cuore, perennemente fiacco e indolente.



Nella vita della Chiesa, e anche nostra, non sempre piove, ci sono anche giorni sereni. Viene in mente questa immagine pensando alle tante comunità cristiane ancora sotto il mirino di persecuzioni violente, come all’esperienza delle prime comunità cristiane, alle volente persecuzioni che sono continuare periodicamente in tutto l’impero romano, per 300 anni. Per illuminare questo ci aiutano anche il vangelo di oggi e la prima lettura.

Nel racconto ascoltato nella prima lettura, sulle vicende delle prime comunità cristiane d’Oriente, si accenna anzitutto alla vicenda di Paolo, che da persecutore accanito si era fatto apostolo coraggioso di Gesù e del vangelo. Venuto però a Gerusalemme, ignari della sua conversione, i cristiani lo evitavano, finché Barnaba, che era stato testimone della trasformazione, non ebbe parlato in suo favore. Dopo poco però, e questa volta per opera di credenti ebrei di origine greca, che gli si misero contro, Paolo dovette fuggire dalla regione, perché volevano ucciderlo. La sua vita è stata sempre una continua alternanza di periodi di libertà e di prigionia, sempre unicamente per la sua predicazione del vangelo. Anche la prima comunità di Gerusalemme e la chiesa delle origini visse vicende alterne. All’inizio la comunità, e gli apostoli in prima fila, dovettero sopportare una grande persecuzione contro di loro. Alcuni cristiani furono anche uccisi, come Stefano e l’apostolo Giacomo, il fratello di Giovanni. Altri furono imprigionati e cacciati, sicché molti si dispersero fuori della città. Questo fatto divenne provvidenziale per cui il vangelo si propagò fuori di Gerusalemme. Passata la bufera, come abbiamo ascoltato, la chiesa tornò a vivere in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria, si consolidava e camminava nella fede del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero. Ci auguriamo e preghiamo che anche la Chiesa di oggi, passata la bufera di tanti scandali e di tante ingiuste persecuzioni, ritorni a vivere in pace, e crescere in numero e qualità. Intanto cerchiamo noi di non uscire dal seminato, di non staccarci dal Signore.

A questo allude l’immagine evangelica della vite e dei tralci. L’immagine era già stata usata nell’Antico testamento per paragonare il popolo eletto a una vite: nel salmo 79 si parla della rovina e del rimessa a coltura della vigna divelta dall’Egitto e trapiantata nella terra promessa; nel profeta Isaia (cap. 5) Dio invece si lamenta che la sua vigna, nonostante le cure amorose, abbia prodotto lambrusche piuttosto che uva. Nel Vangelo il discorso si fa invece personale. Gesù dichiara anzitutto di essere la vera vite, in sostituzione di quella dell’antico popolo ebreo. Non si tratta più di appartenere ad una entità etnica, ma di vivere un rapporto personale con lui, il quale anima e rende feconda la vita del credente. L’immagine aiuta anche a capire l’unità della Chiesa (i tralci) col suo capo (vite), che è Cristo, nel quale anche tutte le sue membra, in lui, sono unite tra di loro.

Le prospettive dell’immagine sono due, commentava già sant’Agostino: o l’unione alla vite o il fuoco, o portare frutto o essere tagliati e buttati via, come quando i contadini potano le viti e bruciano i rami secchi. Un tralcio non più unito alla vite si secca, e non serve più a niente, se invece rimane attaccato alla vite produce un frutto piacevolissmo agli uomini, sia per essere mangiato, sia per essere spremuto e lavorato per fare il vino. La vite è Gesù, l’agricoltore o vignaiolo è Dio Padre, i tralci siamo noi. Vediamo per frasi.

1° Io sono la vite voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Il primo aspetto è quello della comunione tra noi e Gesù. Se rimaniamo uniti a lui, come i rami al tronco, tutta la vita dal tronco passa a noi. Non solo. Il fine di questa connessione non è solo un rapporto vitale ma un rapporto di amore, di amicizia, un rapporto vero, come tra due persone libere e capaci di amare. Ricorre il verbo rimanere, tanto caro a san Giovanni, che lo usa spesso. Non è un rapporto occasionale o saltuario, quello a cui allude Gesù, ma un fatto continuo, una salda amicizia. Come nel matrimonio.

2° Le parole di Gesù vogliono portarci a capire anche che ciò a cui siamo chiamati a realizzare è qualcosa che è sopra le nostre possibilità, e che solo in lui e per lui è possibile realizzare. Per questo aggiunge: Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto. Significa che se vogliamo fare da noi, otteniamo molto meno, anzi assai poco, e certamente non realizziamo una nostra felicità, se non effimera, né per noi né per altri. Quanto invece vengono moltiplicate le forze se agiamo in sinergia col Signore! Senza il tronco (la vite) i rami (i tralci) non vivono e non producono nulla. Far da soli è come voler sfamare cinquemila persone con cinque pani e due pesci. Rimanere uniti al Signore si diventa molto più fecondi. Per cui ciascuno, aperto al Signore, facendo ognuno la propria piccola parte, otterrà frutti molto al di là delle sue possibilità. Anzi, dice di più il Signore: senza di me non potete far nulla. E questo è vero per tutti, anche per coloro che non credono: il Signore si serve di tutti per fare del bene, perché tutti siamo nativamente capaci di bene. Certo se uno è disponibile, se non mette ostacoli, i risultati sono enormemente più grandi.

- Anche la terza frase è vera, lo sanno i contadini, e questa ci introduce nel tema delle contrarietà, delle sofferenze, delle persecuzioni: Ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto. Si tratta di ripulire il tralcio fecondo da ciò che è superfluo, lo vediamo nelle viti lavorate, i tralci sembrano ridotti a moncherini. L’azione deve essere concentrata. È la vita stessa che ci porta talvolta a tagli dolorosi, non è il Signore a mandarci il dolore, ma egli si serve anche di queste mutilazioni per farci crescere, per fari produrre frutti più autentici e più abbondanti. Ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto. Il verbo potare letteralmente significa mondare, ripulire. Gesù usa questo verbo anche nella lavanda dei piedi quando dice che non tutti erano mondi. Riscontriamo vero, anche umanamente, quanto ci fanno crescere le contrarietà, le avversità, le stesse malattie: ci rendono più forti, cresciamo interiormente, ci purifichiamo, ci mondiamo. Senza queste occasioni saremmo delle pappe molli. Certo la sofferenza quando c’è fa male, ma quanto ne usciamo più grandi, dentro! Anche il male, alla fine diventa positivo, ha una radice di grazia. Non scoraggiatevi, anche se il Signore non vi fa dei miracoli: alla fine vedremo il bene che Gesù avrà ricavato in noi dalle nostre sofferenze. Rimanete nel Signore ed egli rimarrà in voi.

Alla fine resta da chiederci come rimanere nel Signore. Attraverso la fede, attraverso i sacramenti, in particolare i sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, attraverso soprattutto la sopportazione coraggiosa delle nostre prove e della stessa prospettiva della morte, unite alla preghiera: Padre nelle tue mani buone affido la mia vita. Come un bimbo in braccio a sua madre, così sia l’anima nostra, in Dio.



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