domenica 15 aprile 2012

O.P. omelie domenicane 15 aprile 2012


II dom. di pasqua, B, ’12 – domenica di Tommaso (dal vangelo)

Domenica della Divina misericordia

            Questa domenica, un tempo chiamata domenica in albis, perché in questo giorno gli antichi neofiti, nuovi cristiani, deponevano le bianche (albae) vesti indossate nel battesimo nella notte di pasqua, Giovanni Paolo II ha voluto dedicarla alla Divina Misericordia, dietro le visioni della giovane santa polacca Faustina Kowalska. Con questo titolo si vuole sottolineare che tutta la pasqua, e tutta la storia del mondo, nascono dal cuore misericordioso di Dio. A questa pietà affidiamo anche la nostra vita, chiedendo al Signore di rinnovare in noi la grazia, attraverso il rito dell’aspersione che ora compiamo, in memoria del battesimo.



In questi giorni stiamo rivivendo, come comunità cristiane, l’esperienza della prima comunità di Gerusalemme, dopo la rapida successione degli avvenimenti: l’uccisione di Gesù, la sua sepoltura e la sua inaspettata resurrezione; inaspettata perché cosa del tutto nuova, anche se Gesù l’aveva preannunciata ai suoi apostoli per tre volte, prima di morire. Solo che delle parole di Gesù essi avevano ritenuto soltanto il fatto che sarebbe stato ucciso, Pietro infatti una volta era intervenuto dicendo: questo non ti accadrà mai, dovessi morire con te. E Gesù l’aveva apostrofato in malo modo: mettiti dietro a me, satana, tu ragioni secondo la mentalità umana, non secondo Dio. Infatti a Dio importava dare all’umanità il segno della resurrezione, sia per dirci che Lui si interessa di noi fino a tirarci fuori anche dalla morte, sia per farci capire quale disegno egli avesse e abbia in cuore per noi tutti: la nostra resurrezione e la nostra vita in Lui. Ma la via per la resurrezione era la morte, per questo Gesù aveva detto: tu ragioni con categorie umane, non con la conoscenza di Dio, per cui io devo morire.

Nel racconto evangelico ascoltato ci troviamo alla sera della prima domenica, del primo giorno dopo il grande sabato della pasqua ebraica. Era stato molto movimentato quel giorno per i discepoli di Gesù: la scoperta della tomba vuota, le visioni delle donne andate al sepolcro, la corsa al sepolcro di Pietro e Giovanni, l’esperienza di Maria di Magdala, i due di Emmaus. Stavano raccontandosi queste cose, quando Gesù si presentò in mezzo a loro e si fece riconoscere, donando loro lo Spirito santo per la predicazione e i sacramenti. Ma in quel giorno memorabile mancava un apostolo, Tommaso, il quale voleva sincerarsi personalmente del fatto, voleva vedere Gesù coi suoi occhi, toccarlo colle sue mani.

Non altrimenti facciamo noi quando chiediamo al Signore di darci dei segni, non ci fidiamo dei segni che ha già altri hanno avuto: vogliamo vedere, toccare, noi. Talvolta il Signore ci viene incontro e ci accontenta, ma poi ci dice anche, come a Tommaso: non essere incredulo ma credente. Ed effettivamente la nostra fede in Gesù talvolta è un po’ incerta, bastano poche obiezioni per metterci in crisi. La crisi dipende certamente dal fatto che spesso non sappiamo dare una riposta alle obiezioni che ci vengono poste, per questo occorre che ci chiariamo bene alcune cose. Non per niente il papa ha indetto per l’anno prossimo un anno della fede, un anno per approfondire la nostra fede e per imparare a come testimoniare meglio la nostra fede in Gesù. Nel Medio evo anche grandi teologi si erano cimentati a scrivere del trattati di teologia per coloro che dovevano predicare ai non cristiani, chiamati gentili, appartenenti cioè ai popoli non ancora cristiani, in particolare ebrei e mussulmani, ma purtroppo senza successo.

Il problema non è vedere, ma credere. Alcuni infatti possono vedere, e non credere. Molti oggi non credono, e cercano motivazioni per confermare la loro incredulità. Le ragioni che noi portiamo, e che a noi sembrano evidenti, a loro non bastano, ma nemmeno loro riescono a dimostrare la loro posizione. Allora si rimane ognuno con le proprie convinzioni. Ma altri non ci cimentano nemmeno a chiarirsi. Il problema di oggi non sono tanto gli atei, coi quali si può discutere, perché stanno cercando; il problema sono coloro che non credono a niente, che non ci pensano neppure, e non gli interessa pensarci. Con costoro c’è poco da fare. Dovremo allora chiederci quali strade seguire per portarli a riflettere. Perché a noi sta a cuore la loro sorte. È la stessa fatica che fanno i genitori per convincere i figlioli a partecipare alla messa, che è uno dei segni della fede. Alla fine, dunque non basta vedere, non basta nemmeno credere, perché anche i demoni credono, non basta nemmeno pregare e andare a messa, occorre vivere secondo ciò che crediamo, secondo ciò che è giusto secondo Gesù.

            In questo ci è dì esempio l’esperienza della prima comunità di Gerusalemme, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, dagli Atti degli apostoli. Ciò che credevano lo vivevano: erano un cuor solo ed un’anima sola, e questa comunione di fede e di cuori arrivava fino alla condivisione concreta dei propri beni. La gente li guardava con ammirazione e stima: guardate come si amano. Non c’erano tra loro poveri e ricchi, ognuno metteva a disposizione quanto aveva, e poi a ognuno veniva distribuito ciò di cui aveva bisogno. Un po’ come facciamo noi in convento dove mettiamo tutto in comune, una cassa comune dove versiamo ciò che guadagniamo col nostro lavoro, e viviamo tutti alla stessa maniera, e ognuno ha quello di cui ha bisogno. Certo è un po’ difficile, questo, viverlo nella vita civile. I rischi ci sono, non ultimo quello di chi non voleva lavorare. Lo stesso san Paolo si rivolgeva ai fannulloni dicendo: se uno non vuole lavorare, neppure mangi. Era un po’ quello che voleva fare anche i comunismo, solo che i presupposti e i metodi erano del tutto sbagliati. Oggi la società quella nostra, ma anche quella internazionale, vanno per altre strade: chi ha i soldi se li vuole tenere, non li vuole condividere. Vedi come sono diminuiti gli aiuti internazionali agli stati vittime di disastri naturali, di carestie, strozzati dai debiti che hanno contratto con noi, ai quali abbiamo aggiunto pesanti penali. Non sono certamente cristiane queste posizioni. Non basta dirci fratelli in Cristo, se non lo siamo concretamente. Oggi siamo diventati tutti più egoisti. Il vangelo va per un’altra strada. C’è il pericolo di ragionare solo con categorie umane, e non con le categorie di Dio, dove la comunione vale più che avere molte cose, come Gesù il quale pur essendo Dio, non si chiuse nel godersi una vita da Dio, ma spogliò se stesso, mettendosi alla pari con noi, donandoci quanto lui aveva, anche la sua vita. Vi ho dato l’esempio, diceva Gesù, perché così facciate anche voi.


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